lunedì 18 marzo 2013

SI CHIAMAVA C3. ERA LA MIA CELLA.




Si chiamava C3. Era la mia cella.
Stava accanto l'entrata del reparto. Una posizione importante.
Ero il primo ad ascoltare  i passi che arrivavano dalla "rotonda". I passi  della posta,  del "gufo" (l'ufficiale giudiziario), quelli  degli agenti, degli educatori (mai ascoltati) ma soprattutto...i passi dei "nuovi arrivati": sempre uguali.
Avevo una grossa responsabilità: segnalare al reparto le loro condizioni, di cosa avessero bisogno, soprattutto per quanto riguarda il cibo.
"Ha le pezze al culo" era la frase di rito oppure bastavano due colpi sulla parete di Gianluca (il vicino di cella) e il reparto si metteva all'opera: pane,  pasta, pantaloni, una piccola colletta di sigarette (l'alimento più importante).
Il "lavorante" di reparto provvedeva al trasferimento di quei beni nella cella del nuovo arrivato.
Era la regola carceraria: I blocchi di partenza di una giornata in prigione devono essere uguali per tutti. "Poi so' cazzi tua".

Si chiamava C3. Era la mia cella.
A volte lo stare vicino l'ingresso non era un privilegio. I suoni del carcere ti arrivavano addosso con la loro brutalità ancora più amplificata: urla, blindati che sbattono, giri di chiavi ossessivi, lamenti e conati di vomito. Quello che mi impressionava era la disperata ricerca di zucchero. I tossici, in carcere, cercano sempre zucchero. Ne hanno bisogno, più della stessa droga. Il metadone gli sballa il quadro glicemico e li vedi come mosche impazzite aggirarsi per i reparti alla ricerca di una merendina. Come bambini viziati e disperati.

Si chiamava C3. Era la mia cella.
Era grande due metri per tre. Ma non te ne accorgi. Ti aiutano gli occhi. Che si abituano: sempre. Lo sguardo ti abbandona lentamente. Il quadro visivo si spegne. Le distanze s'accorciano. Ed essere ingabbiato dentro una scatola è una sensazione normale...

Si chiamava C3. Era la mia cella.
Poi sono stato scarcerato.
Mi hanno salvato i libri, la scrittura e le parole. Spesso quelle degli altri.
Mi ha salvato il mio fuori, che stava bene, in salute, che mi sosteneva e, soprattutto, aveva le possibilità di difendersi dalla quotidianità, dal bisogno, da un'intimazione di sfratto...
non è sempre così

(S.F.)

1 commento:

  1. Non è sempre così, dice bene.
    Perchè, troppo spesso quello che impazzisce non è soltanto il carcerato, ma chi ha dei legami con lui e sta fuori, porta delle conseguenze che non merita, purtroppo.
    Questo grazie ai pregiudizi e preconcetti che innalzano barriere e costruiscono recinti di "filo spinato".
    A.L.

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