giovedì 30 maggio 2013

IL CARCERE DA ROTTAMARE

Da Leggo - 29 maggio 2013
Il guardasigilli Cancellieri: «Le nostre prigioni sono indegne di un paese civile»

ROMA - Carcere chiude causa fallimento. Quello prospettato da Salvatore Ferraro nel libro La pena visibile o della fine del carcere (Rubbettino) è un progetto audace, suggerito dalla crisi del sistema carcerario che, da più di tre secoli, manifesterebbe le sue falle.
E l'alternativa concreta è quella di una pena attiva, visibile, da scontare in luoghi pubblici. Ecco la rivoluzion "pellichiana" di Salvatore Ferraro. 
Oggi, da studioso di Diritto, propone una riscrittura del percorso risocializzante del reo, svincolato dall'impiego del carcere, quella macchina burocratica soggetta all'usura della storia. Come il carcere è passivo e invisibile e rende invisibili i detenuti, vessandoli, e privandoli di una reale rieducazione, così la pena dev'essere visibile, aperta, attiva: «Il sanzionato adesso è solo» scrive Ferraro, destinato a uno spazio pubblico o privato, dall'ufficio al museo, in cui le possibilità di movimento siano circoscritte e in cui non trovi più riconosciuti disvalori originari, al riparo dalla promiscuità con altri colpevoli. Il condannato sarà in minoranza, costretto ad assumersi responsabilità, «collocato ai blocchi di partenza della società», chiamato a produrre risultati se vuole accumulare crediti e non debiti che allunghino la pena.
L'ambiente carcerario, invece, è quello in cui le credenze delinquenziali vengono rivitalizzate, in cui il contatto quotidiano con altri colpevoli alimenta l'aspirazione alla recidiva. È fonte di una desertificazione psicologica e incubatore di quel chiasmo strada-reato-reato- carcere-carcere-strada-reato: insomma, in prigione il detenuto è la sua colpa e la pena che deve espiare. È un invisibile, convinto che il suo status sia immodificabile. Ma per quel 94,5% di condannati giudicati "non pericolosi", la rinascita è possibile. Anche l'incontro tra il ministro Guardasigilli Annamaria Cancellieri, il Sappe e altri sindacati del corpo di Polizia Penitenziaria ha rimarcato la crisi delle carceri, con 43mila posti letto regolamentari a fronte di 66mila detenuti; e 7mila agenti in meno, cosicché il Sappe auspica «una complessiva e organica riforma del Corpo» per «riallineare i ruoli dei vice Sovrintendenti, dei vice Ispettori e dei vice Commissari». E ha ragione Vittorio Antonini, coordinatore dell'Associazione Papillon di Rebibbia e detenuto dal 1985, che parla di questo libro come di un «piccolo miracolo. Perché chi migliora non lo fa grazie al carcere ma nonostante il carcere».

Di Isabella Pascucci



martedì 28 maggio 2013

CARCERI, PER UNA PENA VISIBILE

da Agenzia Radicale



Per alcuni il nome deriverebbe da 'coercere'. Ma secondo altri è nell' aramaico che la parola carcere affonda le sue radici: carcar, si scriveva nell'antica lingua semitica. Tumulare. Un verbo che Salvatore Ferraro, giurista ed ex detenuto  ha usato spesso durante la presentazione del suo ultimo saggio, 'La pena visibile', edito da Rubbettino.

Forse perchè anche la sua mente, prima ancora del suo stesso corpo, è stata seppellita nel terreno arido del sistema giudiziario italiano: spogliato - e non solo metaforicamente - delle sue vesti di cittadino, il detenuto viene estirpato dalla comunità che ha 'infettato' con il suo carico di minaccia per essere inumato nel limbo della passività.

Qui, nelle prigioni di Stato, Ferraro ha trascorso un anno e quattro mesi di carcere preventivo, per poi scontare altri otto mesi ai domiciliari. Da quel momento fu chiaro lo scopo da perseguire: impegnarsi affinchè la “tumulazione carceraria” sia sostituita da una sanzione che restituisca il condannato alla società attraverso relazioni e attività ad essa utili, cosicchè la pena diventi 'visibile' e l'espiazione dellla colpa fruttuosa.

Non si tratta di abolire la punizione, ma di riformare drasticamente un sistema che, spiega Ferraro, è fallito: la reclusione, oramai da trecento anni, non soddisfa nessuna delle esigenze per cui è applicata. L'uomo è privato della sua libertà perchè ha un debito da estinguere nei confronti della società in cui vive, ma la pena carceraria non farà altro che farlo sentire creditore rispetto a un mondo che lo ha dimenticato, cancellato, annullato.

Dietro le sbarre c'è l'invisibilità. Ed è contro questo mantello stregato fa scomparire l'uomo che Ferraro punta la sua bacchetta magica: il condannato deve pagare, ma deve farlo fuori, attraverso un percorso sanzionatorio a cui partecipano lui stesso, la vittima del reato e la comunità.

Il reo potrebbe ad esempio lavorare in un ospedale, in un museo e, svolta la sua attività quotidiana, potrebbe tornare a dormire a casa propria, agli arresti domiciliari, oppure in strutture d'accoglienza pubbliche. Un sistema ovviamente da applicare soltanto ai condannati non pericolosi che, come sottolinea ancora il giurista, in Italia rappresentano il 94,% dei reclusi: per ognuno di loro – è bene ricordarlo – ogni mese lo Stato spende più di 4000 euro.

Negli ultimi dieci anni il sistema penitenziario italiano nel suo insieme è costato circa 30 miliardi di euro. E un tasso di recidiva altissimo. E la condanna di Strasburgo. E diritti persi. E centinaia e centinaia di suicidi. Quella di Ferraro, questo è certo, oltre a rappresentare un interessante spunto di riflessione (e l'ennesima occasione per un profondo mea culpa di società e istituzioni) è probabilmente un'utopia intessuta di proposte intriganti e teorie poco praticabili.

Ma è sicuramente questo il punto di partenza per lasciare ai fantasmi le loro catene e ridare agli uomini la loro carne, le loro ossa, i loro muscoli. La loro visibilità. (F.U.)


sabato 18 maggio 2013

PRESENTAZIONE DEL LIBRO "LA PENA VISIBILE"

Lunedì 27 Maggio alle ore 19,00 alla DOMUS TALENTI di Roma (Via Quattro
Fontane, 113 - in prossimità di Via Nazionale), presentazione del libro: LA
PENA VISIBILE (o della fine del carcere) di Salvatore Ferraro (Rubbettino
Editore).
E' POSSIBILE IMMAGINARE UNA PENA SENZA IL CARCERE?

Interverranno:

- On. Rita Bernardini - Radicali Italiani
- Prof. Luigi Ferrajoli - Giurista
- Avv. Fabio Viglione - Avvocato
- Vittorio Antonini - Coordinatore Associazione Papillon Rebibbia

Sarà presente l'autore

(evento organizzato in collaborazione con l'associazione Papillon Rebibbia)




La pena visibile" è una teoria dell'esecuzione penale che mira a dimostrare come l'esperienza dell'utilizzo del carcere, quale luogo ideale e irrinunciabile dell'esecuzione della sanzione penale, deve ritenersi finita: causa fallimento. Questa teoria non si limita a offrire fatti e argomentazioni atti unicamente a descrivere e provare le ragioni di questo fallimento. È una teoria che aspira a molto di più. Essa, infatti, oltre a offrire ragioni nuove e più profonde nello spiegare dove e in che modo il carcere abbia rivelato i suoi lati deboli, paradossali e contraddittori, mira a modellare un nuovo scenario esecutivo della pena: alternativo, utile e produttivo. Questo modello è fondato su una specifica qualità: la visibilità, ossia la possibilità, da parte della società e della vittima del reato, di partecipare il percorso sanzionatorio inflitto al reo; e muove da due presupposti, meglio, due urgenze fondamentali: ricreare intorno al reo un nuovo ambiente "condizionante" e dissolvere "l'ambiente carcerario"

giovedì 9 maggio 2013

LE PRIGIONI PIENE DI PRESUNTI INNOCENTI


Da La lettura inserto del Corriere della Sera del 5 maggio 2013

Tra le aste che i bambini fanno sul quaderno per imparare a formare le lettere dell'alfabeto e quelle che il futuro Conte di Montecristo traccia col gesso sulla parete della segreta per computare i giorni non c'è alcun legame, se non questo: che per capire il carcere servono a volte gli occhi di un bambino. «Questi, signori, sono le aste, sono i fondamenti, l'abc di uno Stato e di una qualunque civiltà (...). Se non sono a posto questi mattoni è davvero notte e sono davvero i mostri». Enzo Tortora non era un bambino, ma del bambino aveva serbato l'indocilità e la capacità di meravigliarsi. Quando pronunciò queste parole era il luglio del 1985, aveva già scontato sette mesi di carcere in attesa di giudizio e quasi altrettanti ai domiciliari. Il senso è chiaro: la civiltà delle carceri non dovrebbe essere neppure una questione politica, ma un'ovvietà prepolitica, nel senso in cui Benedetto Croce definiva il liberalismo un «prepartito». I fondamenti, l'abc, le aste. Oggi molti ne parlano come di una questione improrogabile, ma in un Paese che coltiva la retorica dell'emergenza, senza assumerne fino in fondo la moralità, non è detto che questo sia un bene. Nel suo discorso programmatico il premier Enrico Letta ha accennato alla «situazione carceraria intollerabile», il neoministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri l'ha già definita «una priorità che mi sta molto a cuore». Ma sono parole, e a lume d'esperienza c'è il rischio che lo restino.
E allora, parole per parole, meglio rivolgersi a due libri recenti dedicati alle storture del sistema penitenziario italiano. Il primo,Condannati preventivi (Rubbettino), lo ha scritto Annalisa Chirico, giornalista e militante radicale. Parla di quella che un tempo si chiamava carcerazione preventiva, oggi custodia cautelare in carcere. Dovrebbe essere una extrema ratio, una misura terribile a cui ricorrere solo quando non c'è alternativa, ma con l'andare degli anni e il succedersi delle emergenze è diventata una prassi, a cui i magistrati si attengono con un pericoloso connubio di intransigenza inquisitoria e pigrizia burocratica. Il risultato è che poco meno della metà della popolazione delle nostre carceri traboccanti è fatta di presunti innocenti, molti dei quali in attesa di un giudizio di primo grado.
Il libro chiarisce bene che le nostre prigioni fuori legge sono il punto di capitolazione di un sistema che è malato fin dalla testa - a partire dalla politica e dalle sue leggi «carcerogene» - e che è trascinato ancora più in basso da un'opinione- pubblica in preda a una persistente intossicazione forcaiola. Ma più ancora, si può dire, le carceri sono il nostro ritratto di Dorian Gray: l'immagine deforme in cui si specchiano l'inamovibilità, la sciatteria burocratica, la mentalità dilatoria di tutto un Paese, con la piccola differenza che a marcire non sono fascicoli in un armadio, ma uomini e donne in gabbia.
Il libro è pieno di osservazioni ragionevoli, ma in Italia la situazione è così buia che la letteratura sul carcere, anche se improntata al senso comune, suona più utopistica della Nuova Atlantide di Bacone. Ci vogliono, di nuovo, gli occhi di un bambino, o di un bambino di mezza età: «Un uomo, un cittadino, chiunque di voi ha diritto a un giudizio - se è accusato di qualche cosa - rapido, pronto, per mille e un motivo (...). Quindi direi che il metro di civiltà di un Paese si misura proprio dalla lunghezza o dalla brevità della carcerazione preventiva. È un male terribile. È un male contro il quale occorre battersi come occorre battersi contro gli altri mali del secolo. Questo è il male italiano del secolo».
Tortora lo spiegò agli alunni di una scuola milanese, che lo intesero a meraviglia. Perché la giustizia avrà pure i suoi tempi, ma le nostre vite sono troppo brevi per tollerare uno Stato che ci tiene in gabbia per anni senza averci condannato. Ci vuole tanta dottrina per capirlo? La prima parte di Condannati preventivi ripercorre casi noti e meno noti - Alfonso Papa, Lele Mora, Amanda e Raffaele, a ritroso fino alla vicenda atroce di Giuliano Naria, che negli anni di piombo scontò quasi dieci anni di carcere in attesa di giudizio, la più lunga custodia cautelare della storia repubblicana. Tra le storie giudiziarie raccolte c'è anche quella di Salvatore Ferraro, condannato nel 2003 per favoreggiamento nell'omicidio di Marta Russo. Ferraro, che si è sempre proclamato innocente, ha scontato un anno e quattro mesi di carcere preventivo, più otto mesi ai domiciliari. «Ho vissuto il carcere da spettatore meravigliato piuttosto che da persona che lo subiva», racconta. Da allora non ha fatto che occuparsi di carceri e carcerati, e il frutto del suo impegno è un libro, La pena visibile, anch'esso edito da Rubbettino. Di custodia cautelare non si fa cenno, perché secondo Ferraro, in un Paese civile, semplicemente, non dovrebbe esistere. Anzi, a dirla tutta, non dovrebbe esistere neppure il carcere, perché nei suoi trecento anni di vita ha dimostrato di non funzionare affatto. Non isola la delinquenza, la raggruppa. Non porta il detenuto a pagare il debito, ma anzi lo fa sentire creditore rispetto alla società. Chi entra in prigione si autoassolve, si deresponsabilizza e finisce (bene che vada) per assuefarsi a quell'«altro mondo».
Giusto o sbagliato, il carcere non risponde a nessuna delle ragioni per cui lo si tiene in vita. Ma l'opinione pubblica non ha modo di constatarlo, perché è un luogo opaco e segregato, e questa invisibilità protegge i suoi fallimenti. Per Ferraro il punto archimedico è qui: rendere visibile la pena, fare in modo che il condannato la sconti a contatto con una porzione di quella società in cui pure dovrebbe reinserirsi. Non sono i sogni compensatori di un giovane giurista che ha avuto guai con la giustizia, sono parte di un dibattito ormai pluridecennale sul superamento del carcere a cui ha contribuito di recente anche un ex magistrato, Gherardo Colombo, con Il perdono responsabile.
Utopie? Può darsi, almeno per gli anni (o i decenni) a venire. Ma per convincersi che la pena invisibile ottiene l'opposto di quel che cerca basta riaprire il diario di quell'uomo candido - anche e soprattutto nel senso voltairiano - messo in gabbia nel giugno del 1983, proprio trent'anni fa: «Quello che non si sa è che una volta gettati in galera non si è più cittadini ma pietre, pietre senza suono, senza voce, che a poco a poco si ricoprono di muschio. Una coltre che ti copre con atroce indifferenza. E il mondo gira, indifferente a questa infamia».

Di Guido Vitiello

lunedì 6 maggio 2013

INSERTI


In carcere arrivava un solo giornale.  Ce lo davano gratis  ogni settimana: si trattava di Famiglia Cristiana. Lo trovavi puntualmente sopra la branda, al rientro del "passeggio" mattutino, avvolto nel cellophan sporco.
Gli altri giornali dovevi ordinarli in anticipo.
Se volevi la copia del mercoledì, per esempio, la dovevi ordinare quattro giorni prima e t'arrivava  verso le 11,00 pieno zeppo di notizie ormai  invecchiate.  
Il costo del giornale,  rispetto al prezzo di fuori, era quasi raddoppiato.  L'importo ti veniva  detratto dal conto che i familiari (chi ce li aveva) provvedevano periodicamente ad alimentare con un po' di denari (chi ce li aveva).
In carcere si leggevano molti quotidiani. Ma il top era  il "corriere dello sport".
 Quasi tutti i detenuti ordinavano una copia del corriere dello sport, lo si faceva a rotazione:  i soldi erano davvero pochi.

Io allora ordinavo un altro giornale: La Repubblica.
Anche all'epoca era un giornale di merda ma,  forse, un po' meno di oggi.
Dei giornali mi piacevano, soprattutto, gli inserti. Gli inserti dei quotidiani, dentro il carcere, erano dei piccoli guerriglieri rivoluzionari. Con i polpastrelli recidevi il cellophan e loro scivolavano  per terra lasciando una scia di colore vivo nel pavimento smorto e grigiastro della cella.
Erano pagine diverse, colorate, con molte foto. La cella subiva uno shock. Troppo colore all'improvviso.
Raccoglievo quegli inserti, gli davo un'occhiata: era un modo come un altro di passare il tempo.
Tutto qui.
Poi il venerdì era il "gran giorno" perché in cella "atterrava" l'inserto grosso: il Venerdì di Repubblica.  Ed era festa. Tanta carta, tante foto, tante notizie e almeno un articolo meritevole di essere letto.
Ma soprattutto, il "Venerdì di Repubblica" aveva LEI: la striscia.
Tecnicamente, una strip profumata che trovavi quasi sempre a metà lettura. Scollavi il lembo adesivo, agitavi un poco, e il gioco era fatto. La cella si riempiva di quell'essenza e, per un attimo, l'odore stantio, senza vita, della cella veniva sopraffatto . La "botta" era forte. Quasi sensuale.
Sollevavi il naso e aspiravi in profondità quella chimica che confondevi per ossigeno puro, benevolo. Il profumo era una novità piacevole, che  cambiava l'umore della giornata.
Se ne era accorto Nicola che, quella strip imbevuta di profumo,  me la chiedeva sempre  in dono.  Io gliela allungavo dal blindato mentre lui incollava  il suo naso a quel lembo di carta adesiva succhiandone la fragranza quasi fosse cibo salvifico.
Il carcere ha un odore terribile. Sa di morte.  Quel profumo combatteva la morte e combatteva il carcere.


Così ogni venerdì la scena si ripeteva. Sentivo i suoi passi, alla solita ora. Nicola chiedeva l'autorizzazione ad accostarsi alla mia cella, riceveva da me  la strip profumata. Le dava una prima poderosa aspirata e se la portava in cella per godersene la linfa per ore e ore, fino a seccarla.
Pare che Nicola procedesse all'operazione di "sniffo" standosene sdraiato sulla branda, con la testa ficcata sotto il cuscino.  
 Ogni venerdì.

Non ho più rivisto Nicola. Intendo dire, fuori. Dovessi incontrarlo gli chiederei solo di quelle strip. Gli domanderei se, in quei mesi, l'hanno aiutato a vivere meglio la sua condizione di recluso. Se, magari, quel profumo era il tentativo di far affiorare con più concretezza il ricordo di  una persona . O se era solo il semplice desiderio di un respiro diverso. Gli chiederei se quelle fragranze l'hanno, in qualche modo, aiutato ad andare avanti.  O se, al contrario, oggi prova repulsione per i profumi, tutti i profumi,  per lui ormai inevitabile e beffardo  richiamo  di quei terribili "Venerdì" di prigione.
(di S.Ferraro, da Galera, le ultime incisioni)

sabato 4 maggio 2013

PRESENTAZIONE DEL LIBRO "LA PENA VISIBILE" (RUBBETTINO EDITORE)


Fattore R e Barbadillo.it

MARTEDI 7 MAGGIO ORE 19,00 presso LIBRERIA ENOARCANO (Via delle paste 106 - vicino piazza del Pantheon - Roma) PRESENTANO il libro 
LA PENA VISIBILE (o della fine del carcere) di Salvatore Ferraro

ne discutono con l'autore:

- ROBERTA BRUZZONE - Criminologa e Psicologa Forense

- ADRIANO SCIANCA - Giornalista

- GUIDO VITIELLO - Docente Universitario e Scrittore

Modera: Paolo Silvestrelli

evento voluto dal fondo culturale Londinese "Imago2"


La pena visibile" è una teoria dell'esecuzione penale che mira a dimostrare come l'esperienza dell'utilizzo del carcere, quale luogo ideale e irrinunciabile dell'esecuzione della sanzione penale, deve ritenersi finita: causa fallimento. Questa teoria non si limita a offrire fatti e argomentazioni atti unicamente a descrivere e provare le ragioni di questo fallimento. È una teoria che aspira a molto di più. Essa, infatti, oltre a offrire ragioni nuove e più profonde nello spiegare dove e in che modo il carcere abbia rivelato i suoi lati deboli, paradossali e contraddittori, mira a modellare un nuovo scenario esecutivo della pena: alternativo, utile e produttivo. Questo modello è fondato su una specifica qualità: la visibilità, ossia la possibilità, da parte della società e della vittima del reato, di partecipare il percorso sanzionatorio inflitto al reo; e muove da due presupposti, meglio, due urgenze fondamentali: ricreare intorno al reo un nuovo ambiente "condizionante" e dissolvere "l'ambiente carcerario"