venerdì 7 giugno 2013

LA PENA VISIBILE: RECENSIONE DA PANORAMA.IT



http://news.panorama.it/politica/in-giustizia/Oltre-il-carcere-un-saggio-di-Salvatore-Ferraro






di Maurizio Tortorella

Il carcere, almeno in Italia, è ormai al fallimento se non già miseramente fallito. Non soltanto per i numeri scandalosi (circa 68 mila detenuti con un sovraffollamento scandaloso), ma anche per la totale, dimostrata incapacità di offrire ai suoi ospiti involontari il minimo percorso rieducativo. Certo, esistono sporadici, clamorosi casi positivi, e viene in mente il carcere di Bollate (Milano) dove i 1.100 reclusi possono lavorare, ma la media delle strutture penitenziarie italiane è purtroppo un vero disastro.
Quali possono essere le soluzioni? C’è chi propone di aumentare il numero delle prigioni, chi sostiene la necessità di introdurre pene alternative. Salvatore Ferraro, giurista ed ex detenuto  ha un’idea diversa, sicuramente opinabile, ma che merita di essere ascoltata. Nel saggio La pena visibile (Rubbettino, 185 pagine, 12 euro), Ferraro ipotizza una teoria innovativa dell’esecuzione penale, legata al modello di un percorso sanzionatorio cui partecipano il reo, la vittima del reato e la società.
«Bisogna mettere da parte il carcere» scrive Ferraro «e individuare un nuovo mediatore con caratteristiche ed elementi strutturali diversi, che assecondino l’esigenza di chiarezza, di un’afflizione redimente, nonché la co-partecipazione pubblica al percorso della pena».
Ferraro ipotizza, insomma, la fine del carcere dove il condannato fisicamente scompare. E sostiene che invece il reo potrebbe essere assegnato a un ambiente specifico per scontarvi pubblicamente la sua pena, per renderla «visibile»: per esempio un ospedale, dove la sua libertà verrebbe compressa in determinati ambiti fisici.
Il comportamento del «detenuto visibile», ovviamente, verrebbe sottoposto a continue valutazioni, dalle quali dipenderebbe la durata della pena.
Com’è ovvio, questo regime penitenziario si applicherebbe, secondo Ferraro, esclusivamente ai condannati non pericolosi, che però rappresentano attualmente una quota elevata, il 94,5%, degli ospiti delle strutture carcerarie. Costoro, alla fine di ogni giornata trascorsa a espiare la «pena visibile» dovrebbero dormire nella propria abitazione, agli arresti domiciliari, oppure in strutture d’accoglienza pubbliche.
La vittima del reato trarrebbe un vantaggio dal lavoro del reo, che grazie al lavoro obbligato avrebbe il denaro per un risarcimento.
Venato forse da qualche intellettualismo e forse un po’ troppo teorico, il saggio di Ferraro ha comunque il merito di analizzare un sistema penitenziario che ha dimostrato di non funzionare (e continua anzi a dimostrare la sua negatività sociale con la clamorosa recidiva di chi vi passa attarverso) e di proporre una soluzione. Una soluzione che avrebbe sicuramente un punto di forza nei ridotti costi economici. Va ricordato, peraltro, che oggi un detenuto costa in media 150 euro al giorno, e che negli ultimi dieci anni il sistema penitenziario nel suo insieme è costato agli italiani 29 miliardi di euro.

UN'IDEA EVOLUTIVA DI "PENA" E SANZIONE

Un filosofo: Fra mezzo secolo si parlerà del carcere come noi oggi parliamo dei
patiboli di una volta, delle catene e dei condannati squartati (Brossat 2003, p. 28)

Una sanzione espiata «fuori dalle mura», dentro la società,
parrebbe cancellare o attenuare di molto il suo ingrediente principale:
la sostanza afflittiva.
Una sanzione senza pena «vera», senza patimento, si palesa
monca. La sofferenza del reo serve a gratificare la vittima, a «purificare» la collettività dal delitto. La pena inflitta ha il compito
primario di ricordare al reo l’errore commesso; e, in fondo, l’inizio
di un percorso rieducativo passa anche attraverso «il segnale
d’inizio» di una porta che si chiude.
Può darsi.
Ma, intanto, che significa sofferenza?
È un’idea oggettiva? Ha una veste formale definitiva? Ce l’ha
mai avuta? Si è manifestata nella società con caratteristiche univoche?
No.
L’idea di pena, di sofferenza, è solo una convinzione
culturale sedimentata. Accettare passivamente un’idea preconfezionata
di sofferenza non ha, pertanto, nessuna giustificazione.
L’idea di sofferenza è stata, infatti, oggetto, in tutta la storia,
di una costante evoluzione. L’ultima, la privazione della libertà
attraverso la prigionia, ha rappresentato, per circa tre secoli, il progetto
più evoluto e idoneo di pena rispetto alle pregresse «idee di
sofferenza» incarnate dal boia, dai ferri roventi, dallo squartamento
dei condannati, dalla gogna: idee, modelli culturali, progressivamente
superati.

Un giudice: Per la collettività turbata dal delitto… ieri questa risposta era la
morte, ieri l’altro i supplizi, oggi la perdita di libertà, domani, forse, una riparazione
costruttiva, nel segno della solidarietà (Fassone in Gozzini 1997, p. 41)

Anche la prigionia in carcere può essere, dunque, un modello
punitivo oggetto di un’ulteriore evoluzione. Può spostarsi da un’idea
pre-confezionata di sterile afflizione, che ha ormai manifestato
tutti i suoi limiti, a «qualcos’altro».
Parlare oggi di pena, di sofferenza, significa anche accettare la
possibile esistenza di una diversa e nuova idea di essa. Bisogna solo
vedere in che termini e in che modi tale pena riesca a esprimere
funzioni, effetti e risultati in grado di soddisfare le aspettative della
vittima del reato e della società.
Si potrebbe, così, dimostrare che la società potrebbe essere in
grado di avviare meccanismi interattivi sufficienti a generare nel
destinatario della sanzione qualcosa che egli percepirà come pena,
come sofferenza.
Si tratta solo di poter concepire un’idea di pena, di patimento
in un senso, diremo, più contemporaneo. Senza rinunciare
a quella che è la sua caratteristica principale ovvero
rappresentare il patimento temporaneo derivante da una condizione
indesiderata:
1. che crea sofferenza;
2. che crea limite;
3. che crea differenza;
4. che crea preferenza per un’altra, migliore, condizione.
Facendo attenzione a che l’aspetto afflittivo non crei nel destinatario
della sanzione «effetti collaterali» indesiderati, ossia quei
già enunciati sbandamenti psicologici che faranno perdere qualsiasi
utilità e qualità alla nuova modalità sanzionatoria.


(da La Pena Visibile, di Salvatore Ferraro, Rubbettino Editore, pagg. 112-114)