lunedì 29 aprile 2013

L'INUTILE CARCERE, RIMEDIO PIU' DANNOSO DEL MALE

di Dario Vese


"La Pena Visibile" è il nuovo libro di Salvatore Ferraro (Rubbettino Editore, 12 euro), studioso e abile giurista già autore sul tema carcere, che organizza una, come si legge, "teoria dell'esecuzione penale che mira a dimostrare come l'esperienza dell'utilizzo del carcere, quale luogo ideale e irrinunciabile dell'esecuzione della sanzione penale, deve ritenersi finita: causa fallimento". Per chi ha un minimo di dimestichezza con la faccenda, per gli stessi dati forniti dall'Amministrazione Penitenziaria e dal Ministero della Giustizia, sarà del tutto scontato concordare con la tesi del fallimento. Anche per quello che storicamente ha rappresentato l'istituzione carcere, un non luogo dove l'isolamento, come si dice, "non isola la delinquenza ma la raggruppa!". Non ci soffermiamo dunque su una tesi già concordata, bensì è d'obbligo una riflessione sul progetto di riforma, sul piano per così dire ideale.
La pena detentiva, nella sua forma di privazione della libertà, si consolidò in un momento storico in cui, sulla base dei principi illuministi e del ripudio delle pene corporali, come la tortura, lo squartamento, i ferri roventi e il patibolo, la si ritenne come una forma più adeguata al fine di ristabilire l'ordine giuridico violato, abbandonando così le tipiche risposte sanzionatorie dello Stato assoluto.
Scrive l'autore: "È un prodotto culturale, sociale, politico e, come tale, esposto all'usura del tempo, della storia: relativizzabile e, quindi, sostituibile come già lo furono le vetuste pratiche punitive e afflittive esistenti prima di esso". Il carcere non nasce con l'uomo, non nasce con la società, neanche con l'organizzazione dello Stato: non è a essi, in alcun modo, connaturato.
Allo stesso tempo, l'idea che la restrizione della libertà personale possa comportare il disconoscimento delle posizioni soggettive non è ammissibile per il primato della persona umana, a meno che non ci si voglia rassegnare ad una società in cui la belva è il volto e l'umano è la maschera.
È vero poi che la questione carceraria nasce col carcere, è vero cioè che la riforma carceraria è praticamente contemporanea al carcere stesso, ne costituisce il programma genetico, un progetto riformatore eterno.
È un fallimento, secondo l'autore, dovuto ad una questione di metodo profonda che fa ritenere il carcere elemento essenziale e imprescindibile delle società moderne e civilizzate, e cioè il completo isolamento da qualsiasi focus conoscitivo. "C'è un ingrediente, un fattore costitutivo molto più importante e decisivo nella stratificazione del ruolo del carcere nella società e della sua pubblica percezione di istituzione insostituibile: la sua invisibilità."
Che cos'è allora un progetto di riforma dell'istituzione carceraria - già teorizzata da molti ma qui organizzata in teoria mediante procedimento Popperiano, a prova di FAQ -, se non - nel tempo in cui la cittadinanza e insieme la richiesta di diritti quasi sussumono univocamente all'esercizio dell'antico adagio "conoscere per deliberare", ovvero a trasparenza -, la conoscenza di un'Istituzione che fa capo alla pratica più delicata che l'organizzazione statale è chiamata ad assumere, la gestione, e quindi la proiezione che ne dà, di persone sottoposte alla privazione della libertà.
La "visibilità" vuole significare quindi la forma più alta di accountability del reo nei confronti dell'aggregazione sociale normata da cui si è tirato fuori nel momento in cui ha commesso il reato, ma soprattutto accountability dello Stato nelle sue diverse accezioni istituzionali nel momento più alto della sua messa alla prova. Un processo legale e verificabile di gestione e insieme di empowerment del sanzionato.
Una necessità questa che risulta evidente ancor più a fronte di quell'intorcinamento sul piano delle responsabilità, per cui per il paradosso della regola di Franz Von Liszt, in Italia, non il giudice ma l'amministrazione penitenziaria determina il significato, il contenuto della decisione giudiziale, quindi non chi infligge la pena ma chi dirige il carcere attribuisce vita e forza alle minacce stabilite nel codice penale, a seconda del carcere, dei provvedimenti e dei regolamenti specifici ai quali viene sottoposto il condannato. Perché al giudice, al legislatore, spettano soltanto la definizione del perimetro esterno, che sta nella privazione della libertà personale.
Atteso che sul piano storico e sociale è più che realistico uno studio comparato tra l'istituzione pena di morte e l'istituzione carcere - non foss'altro perché teoricamente propugnano la medesima funzione sociale, aderendo ad uno stesso idealtipo afflittivo ancorché distinto nelle due declinazioni -, viene da chiedersi quale forma, quale metodo, nel mondo e in Italia in particolare abbia costituito non l'intenzione ma già la pratica dell'abolizione del carcere, se non il Partito Radicale con l'organizzazione strutturale delle visite ispettive, potere di controllo dei parlamentari e quindi produzione permanente di una massa enorme di elementi conoscitivi dell'istituzione carcere.
L'abolizione del carcere è quindi progetto di riforma con data da definire oppure riforma già attiva e militante da quasi quarant'anni a questa parte da una pattuglia sparuta di estremisti del Diritto?
Verrebbe da dire, ritornando all'utile comparazione, così come per la pena di morte ci abbiamo messo più di duecento anni per avere un primo timido segno con una moratoria alle Nazioni Unite, allo stesso modo non possono bastare, nonostante tutto, quarant'anni di lotta per "La Pena Visibile", già quarant'anni di lotta per l'abolizione del carcere.
Un solco tracciato nell'alveo dell'impianto costituzionale moderno, del bilanciamento dei poteri, dove il Parlamento controlla e vigila sull'operato del Governo, unico metodo per ora conosciuto nelle democrazie funzionanti e operanti proprio grazie alla divisione dei poteri, per cui "La Pena Visibile" è stata per il Partito Radicale l'ennesima clava per una riforma armonica già iniziata che ha coinvolto lo Stato nel suo principio essenziale, lo 'Stato di Diritto'.


http://notizie.radicali.it/articolo/2013-04-29/intervento/l-inutile-carcere-rimedio-pi-dannoso-del-male?fb_action_ids=10200671779950591&fb_action_types=og.likes&fb_source=aggregation&fb_aggregation_id=288381481237582

martedì 23 aprile 2013

LE "SOCIALITA" INTORNO A LA PENA VISIBILE: VIVACE, CALOROSO E FECONDO ANCHE IL SECONDO INCONTRO




Il secondo appuntamento della "socialità" intorno alla Pena Visibile l'abbiamo convocato Domenica 21 Aprile ore 11,30 dentro il piccolo e graziosissimo Teatro Manhattan nel cuore del rione Monti a Roma. Ad attenderci... generose tazze di caffè africano, the caldo inglese e un paio di ottime crostate romane (Carla e Marianna le cortesissime artefici di tali prelibatezze).
Il tutto in un ambiente in chiaroscuro davvero molto accogliente.
Un incontro (volutamente) più ristretto rispetto alla spettacolare riunione della prima "socialità"  ma presenze sempre superiori al previsto. Molto bene.  Sono davvero contento.
La presenza in sala di amici coi quali ho già avuto in passato la possibilità di sviluppare dialoghi approfonditi su pena carceraria e sanzione (tra cui ben tre membri dei PRESI PER CASO) mi ha consentito di aprire la "socialità" della domenica parlando dell'ambiente carcerario. Un argomento decisivo per comprendere alcune dinamiche paradossali della pena tradizionale carceraria.  
Il carcere, infatti, la sua filosofia afflittiva fondata esclusivamente sul congelamento della persona e sul suo accorpamento e concentramento assieme ad altre persone è tuttora la causa del rafforzamento dell'"ambiente carcerario deviante". Il concentramento della persona in un sistema di relazioni che tutto sommato tollera, giustifica, arriva a comprendere la commissione del reato non può ovviamente cambiare lo schema di credenze e valori precedentemente acquisito dal reo ma tuttalpiù rafforzarlo. Ho provato a dimostrare come la repressione totale della libertà e la promiscuità carceraria fanno decrescere l'incidenza afflittiva della privazione ma, soprattutto, abbassano la qualità degli interessi personali del reo resettando ogni sua spinta verso la creatività, l'operosità la positività. In pratica la pena tradizionale carceraria è inerzia, degrado, passività, de-responsabilizzazione.
L'amico Gaetano, soffermandosi sul dopo pena, ha evidenziato come la totale assenza di meccanismi di ricollocamento del reo ai blocchi di partenza della società e l'assenza di una politica di inclusione del detenuto sia uno dei fattori più condizionanti la "recidiva" (circa il 70% di chi entra in carcere, una volta fuori, ricommette il reato). Tutto però nasce già dentro con lo svuotamento delle ultime risorse positive del reo e l'accostamento alle regole della sub-cultura che il reo trova/ritrova dentro il carcere.
Durante la "socialità" di questa domenica si è altresì sottolineato che spesso la situazione di stallo in cui la "questione carceraria" evidentemente si trova è figlia di posizioni estreme, radicali, di punti di vista che mai si incontrano in quanto entrambi viziati da fattori esclusivamente emotivi che sfociano, da una parte, in forcaiolismi inamovibili ma anche, dall'altra, in atteggiamenti caritatevoli, alla fine, del tutto inutili o poco costruttivi.
Alcune delle persone presenti, vittime di reati (furto e aggressione) hanno testimoniato l'effettiva e comprensibile difficoltà a perequare un giudizio sereno sulla persona che ha cagionato il danno. Si è però congiuntamente affermato che qualsiasi decisione in merito al percorso sanzionatorio che l'autore di un atto delittuoso (in tal senso, ci siamo soffermati sui reati c.d. non pericolosi, definizione un po' ambigua in quanto la pericolosità o dannosità di un atto è sempre figlia di una convinzione morale)  deve compiere deve essere destituito da qualsivoglia emotività e finalizzato a costruire un qualcosa che risarcisca il danno alla vittima reale, alla società e, contestualmente, consenta al reo di poter praticare delle regole sociali che gli consentano di modificare il proprio schema di credenze e valore. Questo passa necessariamente da una sanzione che non sopprima del tutto la libertà ma la limiti e consenta al reo di mettere in atto comportamenti, fatti, relazioni e risultati che possano approdare a risultati economicamente quantificabili. Ho così presentato, anche se in maniera necessariamente sintetica, lo schema del percorso sanzionatorio chiamato PENA VISIBILE, in particolare l'aspetto afflittivo della limitazione della libertà, della vicinanza con un consorzio più libero, con l'attività utile, fattore spesso distante dalle abitudini culturali di chi delinque. Ho illustrato, su esplicita richiesta, i quattro livelli di controllo (c.d. SINOPTICON che sostituirebbero l'attuale PANOPTICON "anomalo") previsti dal progetto la Pena Visibile e ragionato sul concetto di soppressione totale della libertà. Due ore e mezza sono passate di getto. Davvero colpito dalla nutrita e vivace partecipazione e da come questo tema, in verità indigesto e "allontanante", alla fine riesca a coinvolgere tantissimo e a sollecitare in ognuno domande, ragionamenti, proposte. Queste "socialità" (che mi piacciono davvero tante) sono la dimostrazione che se c'è dialogo vero i punti d'incontro sono tanti, tutti fecondi e fruttuosi. Vi terremo aggiornati....


Per chi fosse interessato a partecipare o, addirittura, organizzare la prossima "socialità" a casa propria o in un altro posto prescelto  può scrivere a lapenavisibile@libero.it



 La Pena Visibile, di Salvatore Ferraro, Rubbettino Editore

RICORDO DI MIKE MOLONEY


Ci sono esistenze che ti sfiorano appena ma sono lo stesso capaci di lasciarti impronte profonde. Lui si chiamava Mike. Mike Moloney. Era di origini australiane ma si era radicato in Irlanda, a Belfast, già a partire dagli anni '70. A vederlo, altissimo, lunga chioma colore d'argento, baffi da Hurley man, ti pareva di avere a che fare  musicista rock con venature country.
 In verità era un attore ma non solo.
Era un uomo che aveva fatto della capacità di sorridere, di comunicare la gioia un nuovo strumento di trasformazione dell'essere. Per questo aveva portato le sue idee performative dentro le galere irlandesi. E sempre per questo che nel 1985 Mike aveva fondato la Belfast Community Circus per poi, negli anni '90 imbucare l'arte drammaturgiche dentro le carceri del nord dell'Irlanda.
La mia vita ha incrociato quella di Mike solo tre volte. La prima, sfuggevole, a Roma alla fine del 2009  poi ad Atene, in occasione della visita alle carceri di Avlona e finalmente a Belfast, nel settembre 2010, quando noi tutti PRESI PER CASO fummo invitati dal progetto movable barres e potemmo esibirci dentro le carceri speciali di Maghberry, Maghilligan e, fuori, in un noto locale di Belfast.


Per comprendere lo spirito di Mike, il suo trattare la vita, le relazioni come un sottile e gioioso gioco di parti, basta ricordare questo: in occasione del nostro arrivo a Belfast si premurò di predisporci una mappa del percorso stradale per arrivare a destinazione. Era un percorso piuttosto tortuoso ed elaborato. Lui lo semplificò levando l'indicazioni di vie, di piazze e di strade e lo ridisegnò ex novo con  esclusivamente l'indicazione nomi di tutti i pub della città che avremmo incrociato. Arrivare a destinazione per noi fu più facile.
Oggi la notizia della sua morte ci ha colto di sorpresa e ci ha addolorato profondamente. Ciascuno di noi aveva il desiderio di rivedere Mike. C'eravamo lasciati con tante promesse e progetti tra cui dividere una bottiglia di Bushmill's, comprendere certe sfaccettatura della suprema arte del clown e il suo potenziale impatto dentro le prigioni, riascoltare la sua risata, farci, insomma coinvolgere dalla sua contagiosa energia e positività.
Il mondo delle prigioni, insomma, da oggi è più solo. Questo ci addolora e non poco.
Un caro abbraccio Mike da tutti noi...Presi Per Caso

sabato 13 aprile 2013

IERI SONO INIZIATE LE "SOCIALITA'": (DAVVERO) BUONA LA PRIMA!



 Ieri, venerdì 12 aprile, si è svolta la prima "socialità" carceraria intorno al mio libro La Pena Visibile.  Un dibattito aperto sulla questione carcere, intorno a un tavolo, con il gentile accompagno di un bicchiere di vino (io: due), senza la consueta divisione tra relatore e uditorio:  insomma, il tentativo di una chiacchierata informale, uno scambio di idee, di punti di vista, spesso opposti, sull'idea di sanzione giusta o sull'effettiva utilità del carcere oggi (per alcune tipologie di reati).
A organizzare la prima socialità è stata l'avvocato Antonella Sotira, mia amica di lunga data, per l'associazione Iusgustandum.  Il locale scelto, una graziosa Enoteca vicino al "cuore giudiziario" della capitale, ossia Piazzale Clodio (brividi). Pensavo di dover interloquire con una quindicina di persone. Alla fine, la prima "socialità" è stata una stanza stipata da oltre quaranta persone (metafora del sovraffollamento carcerario?) calorose, partecipative, attente e interessate a offrire il proprio contributo allo scambio di idee.
Un successone, dunque. Brava Antonella.

Come mi aspettavo l'idea di pena,  di punizione, di sanzione, di risarcimento del danno derivante da reato cambiano di bocca in bocca, di sensibilità in sensibilità. Di storia in storia. Per esempio, alla mia prima domanda "se voi foste vittima di un reato, che misura vorreste per il reo?" il ventaglio di risposte e proposte è stato il più ampio possibile: dall'umiliazione pubblica del reo, alla semplice e pura reclusione fino a passare a chi ha auspicato per il proprio "aguzzino" un percorso riabilitativo e risarcitorio fondato sul lavoro, soprattutto quello socialmente utile.  Un punto fermo che reputo molto importante è stata la comune sensazione di "spiazzamento" per il fatto che il percorso sanzionatorio del reo e quello risocializzante venga completamente sottratto alla vista della società e della vittima del reato. Come affermo nel mio libro, la mancata visione di questo percorso è decisiva. Immaginare la pena è per società e vittima del reato un mero esercizio di aspettativa di cui mai si saprà l'effettiva soddisfazione. Mentre il percorso del reo va in un'altra direzione.
Ho raccontato, in tal senso, il percorso sanzionatorio inciampi in elementi strutturali della pena che finiscono per vittimizzare il reo anziché consapevolizzarlo del disvalore dell'atto delittuoso commesso. La denudazione del reo (spesso accompagnata da ispezione anale) al momento dell'ingresso, lo sfibramento nervoso creato nel detenuto dall'interminabile sequela di percosse ritmiche su grate, blindati,  l'ingiusta e illegittima estensione dei contenuti afflittivi anche ai familiari dei detenuti (con le conseguenti, pericolose, ricadute sociali) hanno suscitato nei presenti una comune reazione di disagio. Perché queste cose non si vedono e, spesso, neanche si sanno.
Per cui si è anche riflettuto sul rischio di un modello di sanzione che troppo spesso anziché modificare in positivo il sistema di credenze e valori del reo ne acuisce il senso di rivalsa, diviene spesso sterile tortura, non crea utilità per la società e per la vittima del reato.
Presenti alcuni professionisti del settore, è stato sottolineato come sarebbe opportuno fare un distinguo tra rei in qualche modo potenzialmente recuperabili e quelli che non lo sono; mentre altra parte affermava che coloro che entrano in carcere, in virtù della sussistenza di una doppia condanna, sono da considerare sempre e comunque pericolosi. Ho sottolineato, al contrario, come dati del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, confermati da illustri magistrati, attestino la percentuale dei detenuti effettivamente pericolosi su un 5,4%. I non pericolosi sono la stragrande maggioranza. Qualcuno ha ricordato il costo giornaliero di un detenuto - sui 150 euro - e io ho riportato i dati su costi annuali del sistema carcerario: due miliardi e mezzo di euro all'anno. Troppo per un modello punitivo che produce tanta recidiva.
Mi sono state rivolte alcune domande sulla vita carceraria, sulla mia esperienza personale. Ho raccontato qualche storia, qualche episodio significativo. Uno dei commensali ha chiesto della sessualità in carcere: un argomento delicato. La medicina penitenziaria ha dimostrato come l'inaridimento della sfera affettiva, emotiva e sessuale generi danni gravi e perversioni pericolose. In carcere la sessualità è depressa e le pratiche, degradanti e mortificanti, dell'autoerotismo sono all'ordine del giorno.
Un'ora e mezza di socialità è scivolata via velocemente (proprio come accadeva in quell'ora e mezza di convivialità in carcere).  Purtroppo mi difetta il dono della sintesi e i tanti argomenti che volevo ancora proporre (legati alle dinamiche dell'ambiente carcerario, della promiscuità, della recidiva e la stessa presentazione del mio progetto di sanzione alternativa chiamato, appunto, Pena Visibile) non sono stati nemmeno toccati. Tanti, tantissimi gli argomenti rimasti in sospeso e di cui si è auspicata l'immediata trattazione. Un segnale importante. Il carcere è sempre meno distante.


Per chi fosse interessato a partecipare, la prossima "socialità" si terrà Domenica 21 Aprile alle ore 11,30 presso il Teatro Manhattan, via del Boschetto 58 (zona Monti). Potete comunicare la vostra presenza scrivendo a lapenavisibile@libero.it


giovedì 11 aprile 2013

PRESENTAZIONE DEL LIBRO "LA PENA VISIBILE" (RUBBETTINO EDITORE)

Mercoledì 24 Aprile alle ore 19,00 alla DOMUS TALENTI di Roma (Via Quattro Fontane, 113 - in prossimità di Via Nazionale) si terrà la presentazione del libro: LA PENA VISIBILE (o della fine del carcere) di Salvatore Ferraro da poco in libreria per l'editore Rubbettino. Sarà presente l'autore.
In chiusura aperitivo.







"La pena visibile" è una teoria dell'esecuzione penale che mira a dimostrare come l'esperienza dell'utilizzo del carcere, quale luogo ideale e irrinunciabile dell'esecuzione della sanzione penale, deve ritenersi finita: causa fallimento. Questa teoria non si limita a offrire fatti e argomentazioni atti unicamente a descrivere e provare le ragioni di questo fallimento. È una teoria che aspira a molto di più. Essa, infatti, oltre a offrire ragioni nuove e più profonde nello spiegare dove e in che modo il carcere abbia rivelato i suoi lati deboli, paradossali e contraddittori, mira a modellare un nuovo scenario esecutivo della pena: alternativo, utile e produttivo. Questo modello è fondato su una specifica qualità: la visibilità, ossia la possibilità, da parte della società e della vittima del reato, di partecipare il percorso sanzionatorio inflitto al reo; e muove da due presupposti, meglio, due urgenze fondamentali: ricreare intorno al reo un nuovo ambiente "condizionante" e dissolvere "l'ambiente carcerario"

lunedì 8 aprile 2013

CARCERE: PARADOSSI E PERICOLI DEL RAPPORTO ESCLUSIVO TRA SORVEGLIANTE E SORVEGLIATO

La polizia penitenziaria è forse la professionalità che, in quasi
trecento anni di storia della pena intramuraria, ha più di tutti
sperimentato sulla propria pelle le beffarde dinamiche della pena
tradizionale. Questa figura è rimasta esposta agli aspetti più duri,
degradanti, conflittuali delle interazioni carcerarie: l’opacità e
brutalità dei reparti, il degrado della vita reclusa, l’interazione, a
volte conflittuale a volte semplicemente assistenziale, col detenuto.


"Autorità e finzione. La commedia va in scena quotidianamente
secondo un copione collaudato in cui carcerieri e carcerati interpretano
la parte, rispettivamente, del potere sovrano e del suddito"


"Il detenuto chiede incessantemente al poliziotto; il
poliziotto chiede incessantemente al superiore. E la «domandina» li accomuna
tutti nella ritualità del chiedere. Ma è più di un rapporto simbiotico. Autorità,
obbedienza, punizione, omertà sono particelle galeotte di un’osmosi secolare
tra carcerieri e carcerati, che condanna il carcere all’immobilismo"


Lucia Castellano - direttore carcere

Nella divisa dell’agente di custodia si sono condensate quotidianamente
(e per quotidiano si intende sia di giorno che di notte)
professionalità diverse, spesso, antitetiche: il carceriere, lo psicologo,
il militare, l’educatore, a volte anche il medico. Senza che
l’agente avesse la misura giusta per indossarne gli abiti.
L’agente spesso si è trovato solo. Altre volte ha ecceduto nell’esercizio
del proprio potere. In linea di massima, ha vissuto il suo
ruolo nella sgradevole sensazione di rappresentare un avamposto
di «diritto sospeso» dove solo la perizia e l’esperienza hanno veicolato
la scelta giusta e «salvifica»; o dove, invece, la tensione, la
stanchezza e l’abbrutimento creati o comunque favoriti dal contesto
intramurario hanno generato sacche di violenza e illegalità.
Quello messo in scena dal carcere in questi trecento anni è stato
un brutale film di tensione, fatto di frizioni, sconforto, isolamento
e sprazzi d’umanità che ha come protagonisti detenuti e agenti.
La società non ha coscienza di questo complesso rapporto tra
sorveglianza e sorvegliato; ne trova traccia giusto in qualche stralcio
di atto processuale o processo archiviato.
I detenuti dentro i reparti, a volte si suicidano. Anche gli agenti,
non di rado, lo fanno.

"Tanti poliziotti non ce la fanno a reggere tutto questo.
Si impiccano, proprio come i detenuti, o si sparano un colpo di pistola in bocca"


Lucia Castellano - direttore carcere

Ma nessuno potrà mai vedere. Anche le interazioni tra questi
due protagonisti della scena carceraria sono recluse. Sono un
rapporto, un dialogo, un’interazione diretta, ravvicinata, chiusi nel
buio di un reparto che esclude tutto il resto.
L’esclusività, la chiusura, l’opacità di questo rapporto deve terminare.
È tempo che «sorvegliare e punire» sia fatto sotto il sole.

(da LA PENA VISIBILE, di Salvatore Ferraro, pagg. 94-95, Rubbettino Editore)





venerdì 5 aprile 2013

AUTOLESIONISMO IN CARCERE: I "TAGLI" DI CUI NESSUNO PARLA




 I numeri sono impressionanti: solo nel 2012 si sono consumati ben 7317 atti di autolesionismo, 1.023 ferimenti, 1308 i suicidi tentati, 58 quelli riusciti. E non solo fra i detenuti. Almeno cinque poliziotti penitenziari ogni anno sfuggono dalla loro reclusione senza fine pena suicidandosi. Questo bollettino di guerra pubblicato ieri dal Quotidiano della Calabria è l'ennesimo, puntuale, conto presentato dal Carcere allo Stato Italiano. Un conto che ci si rifiuta ancora di prendere nella dovuta considerazione ma che anche eludendolo, o forse proprio per questa ragione, finisce lo stesso per riverberarsi ogni anno con la stessa disumana casistica.
Ma perché succede tutto questo?
Chi ha varcato qualche volta la soglia di un carcere (magari da volontario, da avvocato, da parlamentare, o semplicemente da detenuto)  non ha potuto fare a meno di intravvedere nelle braccia di tanti detenuti, sui loro stomaci, sotto il collo, quei solchi cutanei profondi rinsecchiti dal tempo, vecchio o più recente ricordo di un atto autolesionista.
Un'immagine cruda, pietosa, un'istantanea congelata di regressione umana. Ebbene, quei tagli non sono semplici tagli ma rappresentano altro: un vero e propri linguaggio. Il linguaggio della detenzione. L'unico, di fatto,  concesso a un detenuto per comunicare in carcere le proprie ragioni, i propri bisogni. "Sgarrarsi" un braccio, lacerarsi lo stomaco o il collo "con la capocchia" di una scatola di tonno" rappresenta L'unico modo per attirare e ricevere la dovuta attenzione dall'amministrazione penitenziaria.
Non è certo "colpa" dei poliziotti penitenziari i quali, al contrario, in molte occasioni si sono adoperati per scongiurare tali pratiche degradanti e in più di un'occasione hanno salvato la vita a detenuti distogliendoli da propositi suicidi. Però è un fatto consolidato che l'attuale modo di gestire la sanzione penale, col carcere, col freddo isolamento, l'inerzia, la passività, il costante abbandono in ambienti degradati, promiscui e sovraffollati, il "taglio" netto  del reo col resto della società non può che condurre a questa inevitabile conseguenza: la sua regressione, la sua degradazione.



                                                          UNA PROPOSTA


 La Pena Visibile (o della fine del carcere), Salvatore  Ferraro, Rubbettino Editore

giovedì 4 aprile 2013

L'ARRIVO DELLA POSTA



I passi dell'agente addetto alla consegna della posta sembrano terribilmente lenti. Cresce l'eccitazione. Le chiavi battono sui suoi pantaloni. Le lettere sono poche. Giusto una manciata. Poche lettere da dividere tra più di cinquanta persone. L'agente si ferma davanti a un blindato. Il minuscolo volto del detenuto sporge i suoi occhi e un tenue sorriso. L'agente annuisce, sfila la lettera, la violenta con la punta di una penna. Via la carta che cade a pezzi. Ne estrae il cuore di inchiostro. L'agente però non ha finito. Deve ispezionare la busta per vedere se c'è traccia di droga o di altro delitto. Ancora un'occhiata. L'appuntato annuisce di nuovo e passa il foglio di carta nella fessura del blindato. Il detenuto riconosce subito la calligrafia, le cancellature, il dolore, la pazienza. La lettera è una grande bolla di respiro puro con cui il detenuto si gonfia i polmoni, la mente, il cuore. L'aria della cella si scalda. Le tempie si scaldano. E per qualche minuto scivola dentro il tepore vitale del ricordo, di un abbraccio capace di cancellare astio e dolore. Il detenuto inghiotte le lacrime e sperpera sulle pareti grigie accenni di sorrisi dovuti a notizie buone: domani sua figlia compirà quattro anni.

(da "RADIOBUGLIOLO", di Salvatore Ferraro, 2003)

martedì 2 aprile 2013

TRA QUATTRO ANNI "MANTENERE" LE CARCERI ITALIANE SARA' IMPOSSIBILE. (E', dunque, ora di pensare ad altro?)


Carcere: la resa è iniziata.
La fine di questo modello antiquato e improduttivo di sanzione è, ormai, alle porte.
La crisi finanziaria internazionale sta presentando i suoi conti. L'impatto è duro, durissimo. Dappertutto.
Colpirà anche le prigioni. Il mondo delle galere non avrà condoni.
Portare ancora avanti questo modello tradizionale di punizione è insostenibile. Oggi punire con  il carcere costa ogni anno al nostro Paese due miliardi e mezzo di euro (nel 2007 si toccò la cifra record di tre miliardi e novantacinque milioni). In circa dieci anni si è arrivati a spendere ben 29 miliardi di euro. Sarà ancora possibile affrontare questi costi?
E soprattutto...per quale ragione continuare a sostenerli?
Il dato  pacifico sul carcere è questo: l'assenza di risultati positivi.  Questa vetusta forma di sanzione, in termini di riduzione della criminalità, ricollocazione del reo in un ambito lavorativo e recupero della regola violata,  è approdata a risultati pari allo zero. Al contrario, il mantenimento del costoso sistema punitivo tradizionale vede il tasso di recidiva sempre altissimo: i recidivi sono il 68% della popolazione carceraria.

   "Più di due terzi delle persone che escono dal carcere commettono nuovi reati"
                                                 Gherardo Colombo  - Magistrato

Questo significa non solo che il carcere, in tutti questi anni, non è stato in grado di orientare, modellare, intervenire sulle scelte future del detenuto verso regole e valori condivisi ma, più paradossalmente, è stato esso stesso un forte contribuente nel consolidare e rafforzare nel detenuto propositi devianti.
D'altronde, una filosofia afflittiva fondata sulla reclusione, sull'inerzia, sull'isolamento, la separazione netta dalla società, la promiscuità con altri rei  non poteva e non può insegnare a risocializzare. Né può creare nel reo scenari diversi, percorsi diversi, interessi nuovi. Al massimo, può vittimizzare, deresponsabilizzare e rendere, in virtù della promiscuità, più solidi e suggestivi gli input dell'ambiente deviante che il reo ritrova in carcere.

La resa è, dunque, iniziata. La stoccata non è solo di tipo economico.
Il quadro è ulteriormente peggiorato dalla scelta, quasi obbligata, delle professionalità carcerarie che, evidentemente avvilite, demotivate, fiaccate da un andazzo che procura solo frustrazione,  optano per "l'immediato ritiro delle truppe dal campo di battaglia".


"Questi professionisti del «trattamento», poco a poco, si sono rifugiati 
 negli uffici, abbandonando il campo di battaglia…"
                                             Lucia Castellano - direttore carcere


 Poliziotti ed educatori, psicologi e personale scelgono di auto-recludersi negli uffici, nei ministeri, scelgono la via burocratica perché evidentemente saturi di un sistema che non ha più ragione di esistere (almeno per quel 94,6% di detenuti ritenuti non pericolosi). E oggi di questi due miliardi e mezzo di spese annuali quasi l'80% (il 79,2%) è destinato al mantenimento della burocrazia penitenziaria: ossia a carte bollate, uffici, amministrativi, dirigenti ecc. , il 13% alla cosiddetta "rieducazione" del detenuto,  4,4% all'ordinaria manutenzione delle carceri, il 3,4% al mantenimento di alcuni servizi (sì, insomma, le bollette di luce e acqua).

Per la rieducazione del reo vengono in media spesi 0,08 centesimi al giorno!!!! o meglio 2,6 euro al mese!!! e provare a "creare" un nuovo posto in carcere per un detenuto costerebbe alla collettività 27.638,30 euro a cui andrebbero però aggiunte le spese ulteriori per l'aumento della sorveglianza, il personale ecc.
E allora, che fare?
Mantenere questo stato di cose è impossibile. E' ora di pensare seriamente a qualcos'altro.
Basta carcere. La pena sia, dunque, visibile. Utile, produttiva ed economicamente più vantaggiosa. Una sanzione espiata fuori le mura (per i detenuti non pericolosi, ossia il 94,6% della popolazione carceraria) consentirebbe un notevole risparmio economico: almeno il 50%.
Riflettiamoci...ma non troppo a lungo!
(S.F.)

                                                 UNA PROPOSTA C'E'