lunedì 29 aprile 2013

L'INUTILE CARCERE, RIMEDIO PIU' DANNOSO DEL MALE

di Dario Vese


"La Pena Visibile" è il nuovo libro di Salvatore Ferraro (Rubbettino Editore, 12 euro), studioso e abile giurista già autore sul tema carcere, che organizza una, come si legge, "teoria dell'esecuzione penale che mira a dimostrare come l'esperienza dell'utilizzo del carcere, quale luogo ideale e irrinunciabile dell'esecuzione della sanzione penale, deve ritenersi finita: causa fallimento". Per chi ha un minimo di dimestichezza con la faccenda, per gli stessi dati forniti dall'Amministrazione Penitenziaria e dal Ministero della Giustizia, sarà del tutto scontato concordare con la tesi del fallimento. Anche per quello che storicamente ha rappresentato l'istituzione carcere, un non luogo dove l'isolamento, come si dice, "non isola la delinquenza ma la raggruppa!". Non ci soffermiamo dunque su una tesi già concordata, bensì è d'obbligo una riflessione sul progetto di riforma, sul piano per così dire ideale.
La pena detentiva, nella sua forma di privazione della libertà, si consolidò in un momento storico in cui, sulla base dei principi illuministi e del ripudio delle pene corporali, come la tortura, lo squartamento, i ferri roventi e il patibolo, la si ritenne come una forma più adeguata al fine di ristabilire l'ordine giuridico violato, abbandonando così le tipiche risposte sanzionatorie dello Stato assoluto.
Scrive l'autore: "È un prodotto culturale, sociale, politico e, come tale, esposto all'usura del tempo, della storia: relativizzabile e, quindi, sostituibile come già lo furono le vetuste pratiche punitive e afflittive esistenti prima di esso". Il carcere non nasce con l'uomo, non nasce con la società, neanche con l'organizzazione dello Stato: non è a essi, in alcun modo, connaturato.
Allo stesso tempo, l'idea che la restrizione della libertà personale possa comportare il disconoscimento delle posizioni soggettive non è ammissibile per il primato della persona umana, a meno che non ci si voglia rassegnare ad una società in cui la belva è il volto e l'umano è la maschera.
È vero poi che la questione carceraria nasce col carcere, è vero cioè che la riforma carceraria è praticamente contemporanea al carcere stesso, ne costituisce il programma genetico, un progetto riformatore eterno.
È un fallimento, secondo l'autore, dovuto ad una questione di metodo profonda che fa ritenere il carcere elemento essenziale e imprescindibile delle società moderne e civilizzate, e cioè il completo isolamento da qualsiasi focus conoscitivo. "C'è un ingrediente, un fattore costitutivo molto più importante e decisivo nella stratificazione del ruolo del carcere nella società e della sua pubblica percezione di istituzione insostituibile: la sua invisibilità."
Che cos'è allora un progetto di riforma dell'istituzione carceraria - già teorizzata da molti ma qui organizzata in teoria mediante procedimento Popperiano, a prova di FAQ -, se non - nel tempo in cui la cittadinanza e insieme la richiesta di diritti quasi sussumono univocamente all'esercizio dell'antico adagio "conoscere per deliberare", ovvero a trasparenza -, la conoscenza di un'Istituzione che fa capo alla pratica più delicata che l'organizzazione statale è chiamata ad assumere, la gestione, e quindi la proiezione che ne dà, di persone sottoposte alla privazione della libertà.
La "visibilità" vuole significare quindi la forma più alta di accountability del reo nei confronti dell'aggregazione sociale normata da cui si è tirato fuori nel momento in cui ha commesso il reato, ma soprattutto accountability dello Stato nelle sue diverse accezioni istituzionali nel momento più alto della sua messa alla prova. Un processo legale e verificabile di gestione e insieme di empowerment del sanzionato.
Una necessità questa che risulta evidente ancor più a fronte di quell'intorcinamento sul piano delle responsabilità, per cui per il paradosso della regola di Franz Von Liszt, in Italia, non il giudice ma l'amministrazione penitenziaria determina il significato, il contenuto della decisione giudiziale, quindi non chi infligge la pena ma chi dirige il carcere attribuisce vita e forza alle minacce stabilite nel codice penale, a seconda del carcere, dei provvedimenti e dei regolamenti specifici ai quali viene sottoposto il condannato. Perché al giudice, al legislatore, spettano soltanto la definizione del perimetro esterno, che sta nella privazione della libertà personale.
Atteso che sul piano storico e sociale è più che realistico uno studio comparato tra l'istituzione pena di morte e l'istituzione carcere - non foss'altro perché teoricamente propugnano la medesima funzione sociale, aderendo ad uno stesso idealtipo afflittivo ancorché distinto nelle due declinazioni -, viene da chiedersi quale forma, quale metodo, nel mondo e in Italia in particolare abbia costituito non l'intenzione ma già la pratica dell'abolizione del carcere, se non il Partito Radicale con l'organizzazione strutturale delle visite ispettive, potere di controllo dei parlamentari e quindi produzione permanente di una massa enorme di elementi conoscitivi dell'istituzione carcere.
L'abolizione del carcere è quindi progetto di riforma con data da definire oppure riforma già attiva e militante da quasi quarant'anni a questa parte da una pattuglia sparuta di estremisti del Diritto?
Verrebbe da dire, ritornando all'utile comparazione, così come per la pena di morte ci abbiamo messo più di duecento anni per avere un primo timido segno con una moratoria alle Nazioni Unite, allo stesso modo non possono bastare, nonostante tutto, quarant'anni di lotta per "La Pena Visibile", già quarant'anni di lotta per l'abolizione del carcere.
Un solco tracciato nell'alveo dell'impianto costituzionale moderno, del bilanciamento dei poteri, dove il Parlamento controlla e vigila sull'operato del Governo, unico metodo per ora conosciuto nelle democrazie funzionanti e operanti proprio grazie alla divisione dei poteri, per cui "La Pena Visibile" è stata per il Partito Radicale l'ennesima clava per una riforma armonica già iniziata che ha coinvolto lo Stato nel suo principio essenziale, lo 'Stato di Diritto'.


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