lunedì 26 dicembre 2016

CAPODANNO IN CARCERE



Capodanno.
Sdraiato sulla branda. Gli occhi fissi sul televisore spento.



(da "Galera, le ultime incisioni", di S. Ferraro)

giovedì 19 maggio 2016

INNOCENTI



In carcere tutti si proclamavano innocenti.
Non era uno scherzo, non era un bluff.
Era un serio straripamento psicologico. Uno scherzo della mente determinato dalla segregazione e dalle inevitabili vessazioni che la persona tumulata in cella finiva per subire. Tutto sembrava ingiusto, sproporzionato. L'autore del reato resettava la sua responsabilità, la sostituiva con gli abusi e le illegalità che la galera quotidianamente gli somministrava.
In carcere si ricreava la propria innocenza anche, anzi soprattutto, da colpevoli.

Olivier, il ghanese, invece, era  innocente davvero. Così, almeno, ripeteva a più riprese. Lo faceva già la mattina presto, all'apertura delle celle per il passeggio mattutino, con i suoi semprepresenti cinque fogli giudiziari sulla mano destra: Olivier fermava tutti i compagni di detenzione, gli agenti, gli infermieri, i volontari, fermava tutti. Implorava attenzione.
Dava fastidio.
L'innocenza è sempre fastidiosa. Soprattutto in un carcere.
Olivier Veniva spesso anche da me, puntualmente durante il passeggio di mattina e non avevo tanta voglia di ascoltarlo.
Fino a quel giorno avevo aiutato chi avevo potuto. Scrivere in giuridichese, preparare un ricorso, una richiesta di affidamento in prova, un permesso. Lo facevo sempre volentieri: tutta roba per chi poteva aspettare mesi, anni.
Olivier, no. Aveva fretta. Era innocente da subito. I suoi occhi strabuzzati reclamavano il sacrosanto diritto di uscire. E prima possibile.
L'ingranaggio giustizia, però, non funzionava così.
Il  sistema giustizia era un meccanismo spietato, onnivoro, il cui fine era quello di portare dei risultati "a bilancio" e nient'altro. Non potevi avere fretta. Non potevi avere ragione. Erano gli altri a dover decidere per te.
Nel suo italiano malconcio, Olivier riusciva a dirmi sempre e solo due cose: "Sono innocente".  Troppo poco. I cinque, striminziti, foglietti che teneva sempre in mano altro non erano che l'ordine di carcerazione e una breve istanza fatta dal suo legale. Troppo poco anche questo.
Però insisteva, giorno dopo giorno, alla stessa ora, con la stessa modalità: sempre quella sbagliata.
Quella mattina, però, fu diverso. Lo vidi correre verso di me con una luce ficcante negli occhi. Anche il foglio che teneva in mano era diverso: non il solito fogliaccio bianco-sporco partorito da scialbi studi legali o oscene cancellerie di tribunale ma un piccolo rettangolo verde-smeraldo sbiadito, qualcosa di più vivo che veniva dal mondo di fuori: un telegramma.
Me lo mise in mano. Mi chiese di leggerglielo. Lo feci.
"Caro Olivier, faremo di tutto per dimostrare la tua innocenza. Intanto, però, mantieni la calma. Sappi soprattutto questo: qualsiasi cosa accada, noi ti staremo vicino. Non preoccuparti per il tuo posto di lavoro, GIURO che te lo conserverò fino al tuo rientro qui a Vicenza.
Era incredibile. A scrivere quelle cose non era sua moglie, la sua famiglia, gli amici.
Era il suo datore di lavoro.
Un piccolo imprenditore del Nord-est,  Vicenza per la precisione. Un imprenditore del Nord-est di quelli che il pregiudizio di allora ti faceva immaginare come insensibili, razzisti, legati al profitto e pronti a cambiare e sostituire il proprio operaio "negro" come una figurina qualsiasi.
Non preoccuparti per il tuo posto di lavoro, GIURO che te lo conserverò fino al tuo rientro qui a Vicenza
Quelle parole mi fecero tornare alla realtà. Mi svegliarono. Furono come un'esplosione.  Il tunnel della rassegnazione si frantumò (sbriciolò). La mia assuefazione al carcere, alle procedure, a una visione sconfitta e preconfezionata del sistema giudiziario si disintegrò.
Il tutto maturò e si consumò nei successivi tre giorni. La breve istanza fatta dal suo legale conteneva un'unica richiesta: analizzare le impronte digitali di Olivier e compararle con quelle del "fermato" e poi definitivamente condannato  che, al momento del primo arresto, aveva utilizzato un documento falso recante lo stesso nome e cognome di Olivier.
Era così chiaro. Doveva esserlo già dall'inizio. Lo si capiva solo adesso. Due giorni dopo Olivier fu scarcerato. Se ne tornava a lavoro nella sua Vicenza, dal suo straordinario datore di lavoro. Volle salutarmi, farmi gli auguri.
Ogni tanto gli innocenti uscivano di galera.
Capitava.

(scritto da S. Ferraro, da "Galera, le ultime incisioni)




mercoledì 20 aprile 2016

LINGUAGGI

LINGUAGGI
(Autolesionismo)

E bisogna, allora, parlare così. Con se stessi. Su se stessi. Assassinandosi.
Autolesionismo. Un nuovo linguaggio. Un modo nuovo per poter parlare… Col ferro ricavato da certi rasoi si finisce per protestare le proprie ragioni spendendo il proprio stomaco o le proprie braccia. E il sole la mattina racconta di queste nuove parole, segni secchi e profondi su braccia e ventri tatuati, coniate a mano dal silenzio e dalla disperazione sempre muta. Senza risposta. Senza più vita(da Radiobugliolo, 2002, di S. Ferraro)

Makram si era cucito le labbra. Con ago e filo. La sua bocca ora sembrava una cerniera di carne tenuta stretta da un'erba sottile. La voce gli usciva flebile, solo un indistinguibile mugugno, ma ora si faceva finalmente ascoltare. 
Molti anni prima, Giorgio aveva fatto qualcosa di simile. Si era inchiodato i testicoli su uno sgabello. Stessa ragione: farsi ascoltare.
In genere, il linguaggio che si usava in carcere per farsi ascoltare era meno eclatante: ci si tagliuzzava un braccio, si lacerava lo stomaco, si accoltellava la gola. Quasi sempre si utilizzava un rasoio ricavato da una scatoletta di tonno.
A parlare era poi il sangue che colava a caldi fiotti preceduti tutti da un veloce, impetuoso, zampillo e le orecchie del penitenziario finalmente si aprivano. Anche se per poco. Ma si aprivano.
Era un linguaggio partorito dal silenzio. Puro silenzio.
Ed era anche un silenzio totale a precedere quel gesto. Quasi sempre di notte: una voce secca, sicura, diceva: "Guardia venga alla cella numero 10!".
Significava che un detenuto voleva essere ascoltato. Sangue, odore di sangue e non solo.
Non finiva lì. Quello era un linguaggio perenne. Ogni giorno quell'esercito di silenziosi) era ben visibile agli occhi di ognuno.
Braccia, gambe, colli e ventri attraversati da solchi profondi, tagli di lametta, come strade irregolari. Un tempo, attraversati da rivoli abbondanti di sangue. Ora più simili a torrenti secchi. Quei tagli erano le loro parole, le sole possibili lì dentro. Per essere ascoltato. In carcere succedeva sempre così.
Le parole, quelle vere, erano finite, asciugate, morte.
E non uscivano più, da tanto tempo, da nessuna parte.

di S. Ferraro da "Galera, le ultime incisioni"



lunedì 11 aprile 2016

PALLE

"Burracchio" mi raccontò che da giovane era stato un guerriero Ninja.
Mi disse anche che era stato agente penitenziario nelle carceri del Venezuela, che sua moglie era Miss Italia edizione 1989 e che lui si era laureato in Legge "direttamente con Giulio Andreotti".
"Sperduto", invece, era stato fidanzato con Monica Bellucci, suo cugino era stato nientemeno che il costruttore del ponte che attualmente unisce Messina con Reggio Calabria e Vasco Rossi era da tempo suo intimo amico.
La barca del "Capitano" era lunga venti metri, la casa del "Malizia" era di 500 metri quadrati, "Febi" aveva un tesoro messo da parte, il "barese" era ricco sfondato coi soldi fatti vendendo scarpe sotto la metropolitana di Bucarest.
La forza del carcere era proprio questa: annullava la tua vera identità. In carcere ti potevi inventare quello che non eri e diventarlo davvero per giorni, mesi, anni.
Per molti era un regalo inaspettato. Potersi ricostruire una biografia,  una nuova vecchia esistenza, rendere il proprio passato più interessante e movimentato. Renderlo, soprattutto, ricco.
....anche per questo molti, una volta usciti di galera, desideravano ritornarci il più presto possibile

(di S. Ferraro, da "Galera, le ultime incisioni")




sabato 9 aprile 2016

LA PENA VISIBILE: ALCUNI GIUDIZI DEI LETTORI

Sto leggendo il tuo libro. lo trovo interessantissimo, ben scritto e soprattutto invita a guardare le cose da un altro punto di vista. merita il successo! oggi ne ho lette alcune pagine in classe. Tutti hanno apprezzato, anche quelli perplessi

(E. A.)


CIAO Salvatore, Il libro mi è sinceramente piaciuto e , ti dirò di più, mi ha convinto. Non ho mai creduto all'efficacia del carcere neanche quando ci lavoravo. Però mi hai chiarito alcune idee sulle logiche paradossali su cui si basa.

(A.B.)


Ciao Salvatore, ho letto il libro e devo dire che concordo pienamente su tutto quello che hai scritto a tal punto che se potessi ti nominerei MINISTRO della GIUSTIZIA seduta stante. 
p.s. l'hai scritto in maniera perfetta, capibile ed esaustiva. Veramente un opera degna di nota !!!

(D. M.)


Ciao Salvo... anche io ho una grande fortuna.... aver letto il tuo libro! Direi che è stato illuminante, molto impegnativo, ma molto molto illuminante
(C.M.)

Vera rivoluzione. Grande
(R. G.)

Caro Salvatore,
davvero tanti complimenti per il saggio.
Hai uno stile incredibilmente efficace che ti ha consentito di scrivere un'opera che riesce ad essere al tempo stesso "colta" e "divulgativa".
Nella prima parte, con una velocità ed una chiarezza disarmanti, riesci a demolire tutti i pregiudizi sulla inevitabilità del carcere. E lo fai talmente bene che, quando si apre la seconda parte, il lettore non può non condividere la soluzione da te proposta, o almeno rimanerne suggestionato.
Consentimi una riflessione personale: hai subito un'immane ingiustizia, ma non essendo tu "uno dei tanti" sei riuscito a dare un senso anche alla tua incredibile vicenda. Se fossi rimasto "prigioniero" del mediocre e conformista mondo accademico, non saremmo qui a parlare della pena visibile. Questo non è certamente il "lato positivo" della tua vicenda, ma è un insegnamento per tutti e ti fa davvero tanto onore.

Con immensa stima
(C. F.)


E' sidernese, l'autore letterario che ha sconvolto la mia visione sulla letteratura della segregazione e molto di più...
(F. C.)



DIGRESSIONE...


E' successo stamattina in un Bar di Viale Ippocrate. La più classica delle scene. Una mosca nera atterra sul volto di un anziano e ci passeggia sopra. Questi, infastidito, è solerte a mollarsi un cinquino in faccia di violenza inaudita. Risultato: la mosca, stordita, vola via, la faccia dell'anziano però rimane devastata. 
Non so a voi ma a me è sembrata una perfetta metafora del modo in cui stiamo provando a risolvere i problemi in questi tempi.
(S.F.)