mercoledì 27 febbraio 2013

MOSTRINE

Ho una grande fortuna: so  quando la mia vita ha toccato il fondo.
Non è da tutti.
Mi trascinavano ammanettato. Sotto le segrete di Piazzale Clodio. Le ossa spaccate dalla stanchezza e dal risveglio gelido lì a Regina Coeli.
L'attesa nella cella di transito, piena di fumo e sudore, per la "traduzione" in Tribunale.
Io, prima, assieme agli altri compagni. Poi da solo, circondato da cinque agenti.
Buio, freddo, e la "passerella ammanettata" in quei corridoi, con le frasi d'amore, d'odio, di "magica roma", di noia,  di disperazione,  malferme sui muri,  a rimbalzarmi sugli occhi come cartelli pubblicitari di un inferno qualsiasi.
Niente di speciale. La solita scena. Almeno per un detenuto in attesa di giudizio, anzi, per qualsiasi detenuto.
E invece no. In quel momento stavo per  toccare il fondo anche se ancora non lo sapevo.
Tutto ebbe inizio con una frase, breve. Detta da un giovane agente e rivolta al suo superiore, col massimo del garbo e soggezione:"superio'...sbaglio?..o ho l'impressione che il tessuto della sua camicia non sia  quello in nostra dotazione?".Il "superiore" annuì,  sorrise, con un velo di soddisfazione in volto: forse aspettava quel riconoscimento da anni.   Sì, era vero, il tessuto della sua camicia era diverso, di qualità maggiore  "quando puoi permetterti 300.000 lire in più..."si limitò a dire. La sua "superiorità" era tutta là,  rispetto ai suoi colleghi, rispetto a me, rispetto al mondo:dentro quella camicia di qualità appena migliore. 
Intervenne un terzo agente. Vecchio, emaciato. Ricordò come le camicie in dotazione della polizia penitenziaria negli anni '80 a fine giornata emanassero un cattivo odore. Si aprì un dibattito. Le camicie. Le loro, mentre mi trascinavano in manette, avvolto nella nuvola azzurrina dei loro tessuti a basso costo. Dei pochi soldi a fine dei mense, del "concorso che "ancora non è uscito il bando". Manette ai polsi, proprietà di Stato, nel buio del tunnel. Poi finalmente fuori ed è anche peggio. Gli occhi si bruciano. Il sole non è un amico. Ti schiaffeggia gli occhi, ti pizzica il collo. Il "superiore" torna a parlare di quel tessuto "che non fa sudare" e che "mia moglie dice che è anche più facile da lavare". E gli altri poliziotti ascoltano, con ammirazione. Forse un giorno toccherà anche a loro una camicia così. Un tessuto così.  "Se si decidono a sbloccare 'sti concorsi". E le manette adesso mi fanno male. Colpa del sudore ai polsi.
E' ora. Il Tribunale mi aspettava. Mi aspettavano i giudici. Le loro costosissime toghe mi aspettavano. Anche i miei avvocati avevano toghe di altissima qualità. E io, invece, mi sentivo senza più" mostrine" da essere umano. Era la prima volta che mi sentivo così. Anzi, l'unica. Poi non ricordo molto. Ricordo che non avevo voglia di parlare. Ricordo che ero stanco. Ricordo che quel giorno, poi, l'udienza fu rinviata per un errore nella notifica.

(di S.Ferraro, da Galera, le ultime incisioni)

martedì 26 febbraio 2013

RECUPERARE LA REGOLA

Per consentire al reo di recuperare l'adesione a una regola "positiva" si deve fare una sola cosa: permettergli di praticarla. Ripetutamente. Renderlo attivo, produttivo, responsabile, farlo interagire con un consorzio sociale reale, con limitazioni di libertà, certo. La strada è questa.
Accantonare il reo, isolarlo col carcere, renderlo inerte, deresponsabilizzarlo, lo allontana sempre più dalla pratica della regola "positiva" e lo avvicina ineluttabilmente ad altre regole: quelle carcerarie.
Il che significa una sola cosa: spianare al detenuto la strada per la recidiva.
S.F.


                                                      UNA PROPOSTA






La pena visibile è un progetto organico e articolato che mira a modellare un nuovo scenario esecutivo della pena: una sanzione finalmente allontanata dall’opacità delle mura carcerarie e trasportata fuori, nella società. La realizzazione di un’interazione in cui vengono coinvolti i vecchi protagonisti della pena ma stavolta con funzioni più “aperte”, visibili, attive e con la presenza di un nuovo soggetto: la società, i suoi spazi, le sue relazioni.
Una pena che si esprime “dentro” un consorzio sociale in grado di produrre meccanismi afflittivi più aggiornati, garantendo, al contempo, un sistema di controllo adeguato. Un modello di sanzione “visibile” che, grazie alla co-partecipazione sociale, responsabilizzi il reo e gli fornisca stimoli positivi che possano finalmente distoglierlo da propositi devianti e indirizzarlo consapevolmente verso la pratica costante e continuata di regole sociali condivise.

La Pena Visibile, Salvatore Ferraro, Rubbettino Editore

venerdì 15 febbraio 2013

PISAPIA!


Era il 1998. Stavo "dentro". Un giorno alcuni politici e rappresentanti della cultura fecero una visita in carcere. Vollero visitare l'attivissima biblioteca Papillon Rebibbia, gestita da alcuni detenuti. Tra i visitatori c'era l'onorevole PISAPIA: la voce si sparse. Io mi stavo recando verso la sala-avvocati, il che significa attraversare quattro reparti. Durante l'attraversamento del corridoio fui raggiunto dal tipico vociare "radiobugliolesco": "Aho' ce sta PISAPIA!"..."Ha capito?! ce sta PISAPIA"...sotto la rotonda, lo spesino di reparto mi chiese: "Lo sai che ce sta PISARIA?". Nel corridoio che congiunge il G11 col transito e G6...la notizia era arrivata ma già inquinata dalla "notizia di terza mano": "Aho chi è 'sto PITARPIA". Prima di arrivare alla diramazione per la sala avvocati si parlava già della presenza di tale "PITARRIO" ma il clou si ebbe all'ingresso della sala- avvocati quando il mitico Peppe mi chiese: "Ma è vero che hanno visto PADRE PIO?"

(di S. Ferraro, da Galera, le ultime incisioni)

mercoledì 13 febbraio 2013

TORNARE "DENTRO"


"Aveva un solo pensiero in testa: farsi arrestare di nuovo".

Oggi uno dei quotidiani italiani a maggiore diffusione riporta questa notizia: un anziano, 73 anni, prova a fare una rapina al solo fine di farsi arrestare e tornare "dentro".
Perché?
Voglio approfittare di questa storia per anticipare uno degli argomenti più importanti trattati ne La Pena Visibile. Ossia: la recidiva.
Chi ha commesso un reato o più di uno, nonostante il carcere, l'esecuzione o il "trattamento rieducativo" a cui è stato sottoposto durante l'espiazione, finisce per ricadere (recidiva deriva dalla locuzione latina recado che vuol dire, appunto, ricadere) nello stesso sbaglio e a commettere di nuovo un reato.
Perché succede questo?
Ma, soprattutto, perché succede così spesso? ( i recidivi oggi rappresentano l'87% dell'attuale popolazione carceraria italiana).
Le ragioni sono tante. La Pena Visibile (libro in corso di pubblicazione per la Rubbettino editore), per esempio, ne individua almeno sei, tutte direttamente legate al modo in cui la pena tradizionale gestisce il percorso del reo. Un percorso che, in definitiva, anziché fornire strumenti di auto-determinazione, utilità, consapevolezza, riesce solo a procurare al reo sentimenti di vittimismo, deresponsabilizzazione sociale, inerzia, degrado. Ma soprattutto: piena assuefazione alla vita e alle dinamiche sociali del carcere. Fate attenzione alla giustificazione fornita dall'anziano...

 «Voglio passare quel che resta della mia vita in carcere: sto meglio lì che fuori».

E', questa, forse, una delle ragioni più residuali ma anche più significative per cui una persona che ha già commesso qualche reato, fatto un po' di carcere, senta la necessità o, comunque, non abbia alcun timore di tornare in carcere.
Non bisogna essere anziani o disperati. Anche un giovane nel pieno delle forze potrebbe avere "un'uscita" del genere. Il fattore scatenante è aver conosciuto il carcere, le sue dinamiche, le carambole psicologiche che produce.

Mesi di detenzione, di pratica ambientale, hanno fatto diventare il carcere una seconda realtà, assolutamente accettabile. In alcuni casi, addirittura, confortevole. Il carcere ha somministrato i suoi ingredienti e il reo li ha digeriti tutti: il carcere «appare» al detenuto più ingiusto del reato che ha commesso, in carcere si frequenta un gruppo sociale provvisorio, congelato, verso il quale non si ha nessuna responsabilità, al quale si può offrire la migliore maschera di se stessi.
Quelli fra i più deboli vedono, addirittura, nella carcerazione una possibilità per essere finalmente qualcuno. In carcere si può millantare, si può essere un’altra persona, le interazioni sociali sono così artificiose e falsate che ci si può reinventare dal nulla una vita o un passato glorioso.
Ecco perché in carcere qualcuno riesce a stare bene. Perché quel gruppo sociale, minuscolo, prevedibile, senza assunzioni di responsabilità può divenire «comodo» rispetto ai problemi della vita di fuori.

Se non si hanno alternative.

E, allora, una volta liberi, tornare a delinquere sarà un’attività senza costi particolarmente gravosi. Ne varrà, insomma, la pena.

Si torna in carcere perché fuori la vita, intanto, è andata avanti con nuovi strumenti, nuovi tempi. Nuove strade e nuovi linguaggi.

E il carcere non ha preparato, ha impoverito, ha infiacchito il già labile bagaglio che si possedeva. Si è stati solamente «scongelati» dopo mesi, anni di congelamento inerte e ovviamente il «sapore» non è cambiato.
Non è potuto cambiare.
Quella cella diverrà la sua seconda casa, da abitare per qualche mese durante l’anno. Come in villeggiatura. Quando ritornerà.

Perché ritornerà.

Ecco perché il reo non avrà timore di tornare in carcere.

Perché lì ritroverà, comunque, una sua casa e un gruppo di «amici»: un qualcosa che non saprà più valutare criticamente ma che accetterà passivamente. Come passivamente accetterà il fatto che, prima o dopo, tornerà a delinquere.

Il carcere gli ha insegnato questo.

A molti ha insegnato questo.

( da "La Pena Visibile", di Salvatore Ferraro, pagg. 85-87, Rubbettino Editore)

http://www.corriere.it/esteri/13_febbraio_13/unbehaun_chicago_2bdb7c88-759a-11e2-a850-942bec559402.shtml

martedì 12 febbraio 2013

LA POESIA BRUCIA...





Quando mi trovavo "dentro" avevo un vicino di cella egiziano. La mattina, prima di andare all'"ora d'aria", si fermava davanti la mia cella e con gli occhi inseguiva i tanti libri con cui l'avevo occupata. Un giorno mi chiese in regalo un libro. Gli dissi di scegliersene uno. Guardò con attenzione: scelse un'antologia di poesie di Gibran. Qualche settimana dopo me ne chiese un'altro.

Lo invitai ancora a scegliere. Volle leggere l'antologia di Lee Masters. Aveva dunque scelto: un poeta della vita e uno della morte. Era una strana coincidenza. Qualche giorno dopo fu scarcerato. Lo vidi andare via. Carico di niente. Ma forse con l'animo ancora riempito di poesia, di vita e di morte. E anche quando scoprii che l'egiziano volle e scelse proprio quei libri semplicemente per la carta dura della copertina, ideale per fabbricarsi in cella delle ottime canne, in qualche modo fui contento: Nur aveva incontrato la poesia. E la poesia brucia...

(di S. Ferraro, da Galera, le ultime incisioni)

lunedì 11 febbraio 2013

IL PROGETTO

La pena visibile è un progetto organico e articolato che mira a modellare un nuovo scenario esecutivo della pena: una sanzione finalmente allontanata dall’opacità delle mura carcerarie e trasportata fuori, nella società. La realizzazione di un’interazione in cui vengono coinvolti i vecchi protagonisti della pena ma stavolta con funzioni più “aperte”, visibili, attive e con la presenza di un nuovo soggetto: la società, i suoi spazi, le sue relazioni.
Una pena che si esprime “dentro” un consorzio sociale in grado di produrre meccanismi afflittivi più aggiornati, garantendo, al contempo, un sistema di controllo adeguato. Un modello di sanzione “visibile” che, grazie alla co-partecipazione sociale, responsabilizzi il reo e gli fornisca stimoli positivi che possano finalmente distoglierlo da propositi devianti e indirizzarlo consapevolmente verso la pratica costante e continuata di regole sociali condivise.


domenica 10 febbraio 2013

SCRIVANO



Correva l'anno 1998 e stavo ancora "dentro". Per il fatto di scrivere meno peggio in italiano e conoscere qualcosina in più di diritto, fui insignito "sul campo" del ruolo di "scrivano di reparto": il G11 di Rebibbia. La mia cella, così, veniva ogni giorno riempita di atti, carte, faldoni e richieste. Ossia, invece di giocare a carte, osservare il soffitto o guardare la tv, mi occupavo di scrivere istanze ai giudici, richieste all'amministrazione penitenziaria e revisioni...di lettere d'amore. In quell'anno, grazie a quegli atti scritti da me uscirono almeno sette persone (rivendicai sempre il merito di quelle scarcerazioni: in verità, quattro furono dovute a semplici automatismi giuridici ritardati dal fatto che gli interessati non erano assistititi da avvocati di fiducia. Tre, invece, dovettero il lieto esito grazie a carambole giudiziarie o alchimie processuali di cui non esiste ancora spiegazione logica).

"Chicco", no. "Chicco" mi disse che voleva provarci da solo. Voleva scrivere da sé la sua istanza.

Era tornato dentro per una revoca di un beneficio dovuto a una contestata evasione dei domiciliari. Mi chiese solo se potevo correggergli la versione finale. Solo questo. Dissi di sì. "Chicco" restò in cella a scrivere, per cinque sudatissime ore. Sentivo il suo bofonchiare, il rumore della carta che si accartocciava, le linee sottili di un ragionamento giuridico espresso ad alta voce. Poi: fumata bianca. Il ricorso era pronto. "Chicco" passò il foglio a Ferruccio , lo "scopino" di reparto che lo consegnò a me per la correzione finale. Buttai un'occhiata all'atto. C'era solo una riga. Malferma. Con su scritto: "LA CORPA NON E' MIA" 

(di S.Ferraro, da "Galera, le ultime incisioni")

sabato 9 febbraio 2013

LA PENA VISIBILE


La pena visibile è una teoria dell’esecuzione penale che mira a dimostrare come l’esperienza dell’utilizzo del carcere, quale luogo ideale e irrinunciabile dell’esecuzione della sanzione penale, deve ritenersi finita: causa fallimento.

Questa teoria non si limita a offrire fatti e argomentazioni atti unicamente a descrivere e provare le ragioni di questo fallimento. È una teoria che aspira a molto di più.

Essa, infatti, oltre a offrire ragioni nuove e più profonde nello spiegare dove e in che modo il carcere abbia rivelato i suoi lati deboli, paradossali e contraddittori, mira a modellare un nuovo scenario esecutivo della pena: alternativo, utile e produttivo.

Questo modello è fondato su una specifica qualità: la visibilità, ossia la possibilità, da parte della società e della vittima del reato, di partecipare il percorso sanzionatorio inflitto al reo; e muove da due presupposti, meglio, due urgenze fondamentali: ricreare intorno al reo un nuovo ambiente «condizionante» e dissolvere «l’ambiente carcerario».

La Pena Visibile (o della fine del carcere), di Salvatore  Ferraro,  Rubbettino Editore.

giovedì 7 febbraio 2013

SBARRE DI CIOCCOLATA


Io e Gianluca, vicini di cella. Io la numero 3, lui la 4. Io in custodia cautelare, lui... venti anni da espiare.  Bussò sulla cella come si fa con le case normali.  Io spinsi il blindato. Me lo trovai davanti.

Aveva una sorpresa per me. Un pensiero: una navicella spaziale fatta di cioccolata.

L'aveva realizzata lui. Più di un mese di lavoro per la raccolta della materia prima. La cioccolata.

Era  cioccolata scaduta. La portavano "dentro" le associazioni di volontariato. Regalate da distributori che, in prossimità della scadenza, dovevano disfarsene. L'ultimo bacino di scarico di un dolce prossimo a scadere è sempre un carcere. Gianluca era bravo a fare lavori del genere. A Natale il presepe costruito da lui era stato il più bello di tutto il penitenziario. Il carcere organizzava ogni anno "battaglie" fra reparti per chi faceva il presepe più bello. Eravamo come bambini. Chi ha studiato lo chiama processo di infantilizzazione del detenuto.

Insomma la navicella spaziale di Gianluca era bellissima. Aveva tutto. Con cucchiaini di plastica, ritagli di cartone, lembi di "domandina" e incarti di sigarette aveva dato un'anima a quel dolce.

La notte aveva squagliato la cioccolata. L'aveva lasciata, poi, rapprendere al freddo, dietro la grata.

Alla "socialità" della sera l'avremmo mangiata. Accompagnata da birre raffreddate dal getto d'acqua continuo dello scarico del water manomesso (spero che questa necessaria ma anti-ecologica usanza carceraria sia finita) e dal solito balsamo di risate e battutacce per dimenticare dove stavamo. Frantumammo quella navicella. La divorammo, la  spezzettammo, ingurgitandola nonostante  il sapore sbiadito di un dolce giunto da tempo a fine pena.  Dissi a Gianluca che, in fondo, mi dispiaceva aver distrutto quel suo piccolo capolavoro. Gianluca la pensava diversamente. Era sicuro, mi disse, che quella navicella non c'avrebbe portato fuori di lì.

( di S. Ferraro, da Galera, le ultime incisioni)