giovedì 19 maggio 2016

INNOCENTI



In carcere tutti si proclamavano innocenti.
Non era uno scherzo, non era un bluff.
Era un serio straripamento psicologico. Uno scherzo della mente determinato dalla segregazione e dalle inevitabili vessazioni che la persona tumulata in cella finiva per subire. Tutto sembrava ingiusto, sproporzionato. L'autore del reato resettava la sua responsabilità, la sostituiva con gli abusi e le illegalità che la galera quotidianamente gli somministrava.
In carcere si ricreava la propria innocenza anche, anzi soprattutto, da colpevoli.

Olivier, il ghanese, invece, era  innocente davvero. Così, almeno, ripeteva a più riprese. Lo faceva già la mattina presto, all'apertura delle celle per il passeggio mattutino, con i suoi semprepresenti cinque fogli giudiziari sulla mano destra: Olivier fermava tutti i compagni di detenzione, gli agenti, gli infermieri, i volontari, fermava tutti. Implorava attenzione.
Dava fastidio.
L'innocenza è sempre fastidiosa. Soprattutto in un carcere.
Olivier Veniva spesso anche da me, puntualmente durante il passeggio di mattina e non avevo tanta voglia di ascoltarlo.
Fino a quel giorno avevo aiutato chi avevo potuto. Scrivere in giuridichese, preparare un ricorso, una richiesta di affidamento in prova, un permesso. Lo facevo sempre volentieri: tutta roba per chi poteva aspettare mesi, anni.
Olivier, no. Aveva fretta. Era innocente da subito. I suoi occhi strabuzzati reclamavano il sacrosanto diritto di uscire. E prima possibile.
L'ingranaggio giustizia, però, non funzionava così.
Il  sistema giustizia era un meccanismo spietato, onnivoro, il cui fine era quello di portare dei risultati "a bilancio" e nient'altro. Non potevi avere fretta. Non potevi avere ragione. Erano gli altri a dover decidere per te.
Nel suo italiano malconcio, Olivier riusciva a dirmi sempre e solo due cose: "Sono innocente".  Troppo poco. I cinque, striminziti, foglietti che teneva sempre in mano altro non erano che l'ordine di carcerazione e una breve istanza fatta dal suo legale. Troppo poco anche questo.
Però insisteva, giorno dopo giorno, alla stessa ora, con la stessa modalità: sempre quella sbagliata.
Quella mattina, però, fu diverso. Lo vidi correre verso di me con una luce ficcante negli occhi. Anche il foglio che teneva in mano era diverso: non il solito fogliaccio bianco-sporco partorito da scialbi studi legali o oscene cancellerie di tribunale ma un piccolo rettangolo verde-smeraldo sbiadito, qualcosa di più vivo che veniva dal mondo di fuori: un telegramma.
Me lo mise in mano. Mi chiese di leggerglielo. Lo feci.
"Caro Olivier, faremo di tutto per dimostrare la tua innocenza. Intanto, però, mantieni la calma. Sappi soprattutto questo: qualsiasi cosa accada, noi ti staremo vicino. Non preoccuparti per il tuo posto di lavoro, GIURO che te lo conserverò fino al tuo rientro qui a Vicenza.
Era incredibile. A scrivere quelle cose non era sua moglie, la sua famiglia, gli amici.
Era il suo datore di lavoro.
Un piccolo imprenditore del Nord-est,  Vicenza per la precisione. Un imprenditore del Nord-est di quelli che il pregiudizio di allora ti faceva immaginare come insensibili, razzisti, legati al profitto e pronti a cambiare e sostituire il proprio operaio "negro" come una figurina qualsiasi.
Non preoccuparti per il tuo posto di lavoro, GIURO che te lo conserverò fino al tuo rientro qui a Vicenza
Quelle parole mi fecero tornare alla realtà. Mi svegliarono. Furono come un'esplosione.  Il tunnel della rassegnazione si frantumò (sbriciolò). La mia assuefazione al carcere, alle procedure, a una visione sconfitta e preconfezionata del sistema giudiziario si disintegrò.
Il tutto maturò e si consumò nei successivi tre giorni. La breve istanza fatta dal suo legale conteneva un'unica richiesta: analizzare le impronte digitali di Olivier e compararle con quelle del "fermato" e poi definitivamente condannato  che, al momento del primo arresto, aveva utilizzato un documento falso recante lo stesso nome e cognome di Olivier.
Era così chiaro. Doveva esserlo già dall'inizio. Lo si capiva solo adesso. Due giorni dopo Olivier fu scarcerato. Se ne tornava a lavoro nella sua Vicenza, dal suo straordinario datore di lavoro. Volle salutarmi, farmi gli auguri.
Ogni tanto gli innocenti uscivano di galera.
Capitava.

(scritto da S. Ferraro, da "Galera, le ultime incisioni)