martedì 22 ottobre 2013

MA IL VERO PROBLEMA DEL CARCERE RESTA SEMPRE... IL CARCERE



Quando si parla di carcere  (chissà perché?) si pensa solo al problema del sovraffollamento. 
In tal senso, ognuno ha già pronta la sua ricetta: c'è chi è convinto, per esempio, che per risolvere il problema basterebbe costruire nuove carceri, chi, invece, sostiene che sarebbe sufficiente rispedire i tanti detenuti stranieri ai rispettivi Paesi di provenienza. I più dotti e raffinati denunciano, inorriditi, il degrado delle carceri di oggi considerandone le condizioni di vita inaccettabili per un Paese che voglia dirsi civile e auspicano, con eleganza, il concepimento imminente (!!!) di galere "più a misura d'uomo". 
C'è quello che si accorge che il codice penale che disciplina i nostri reati è addirittura del 1930 e che forse "parla" a un Paese che non c'è più. Chi guarda in faccia la realtà e sottolinea che sarebbe il caso depenalizzare i reati concernenti gli stupefacenti.

Posizioni, apparentemente diverse e discordanti, con un fortissimo e decisivo punto in comune: non riescono a rinunciare all'esistenza del carcere.

Il carcere è un prodotto culturale ormai superato, vetusto, "fuori dalla storia". Un prodotto che ci affanniamo a conservare, difendere, come una relazione sentimentale stanca, sfibrata ma che si ha paura di perdere.
Il carcere è dentro di noi. Siamo cresciuti con esso. Ci è stato insegnato che serve a proteggerci, a isolarci dal male...
Eppure, più di trecento anni fa, alcuni giovanotti dell'aristocrazia milanese (Tali Beccaria, Verri ecc.) compresero bene che ogni idea di punizione, ogni tecnica di punizione, ogni modello di sanzione è sottoposto a un'usura sociale e a un'evoluzione tecnico-giuridico. Forse fu per questo che essi propugnarono l'abolizione delle forche, degli squartamenti pubblici, dei patiboli e delle gogne. Idee nuove che sconvolsero l'opinione pubblica così assuefatta e rassicurata dalle pregresse, bestiali (per noi, oggi), forme punitive.
La magia fu una sola: lo fecero. Punto.
Il carcere, trecento anni fa, rappresentò l'avanguardia, la scelta illuminata. Un mezzo di contenzione che aboliva gli abomini delle torture e determinava l'essenza della punizione nella privazione completa della libertà. Quello che, allora, sembrava inimmaginabile fu immaginato e, di conseguenza, realizzato.
Un'idea, appunto.
Oggi il vero problema del carcere è il carcere dentro di noi, quello che ci impedisce di guardare "oltre" questa forma di sanzione che, ormai logora, dopo trecento anni di carriera, ha inevitabilmente manifestato tutti i suoi limiti, le sue contraddizioni, le sue perversioni. Un modello punitivo che sta "avvelenando" la Società con il suo gettito continuo di recidiva, di qualificazione criminale e regressione psico-fisica.
Sarebbe sufficiente fare poco: spostare il baricentro della sanzione dalla realtà tumulante della cella, dalla inerte e congelante contenzione della prigione, a modelli di sanzione "aperti", limitativi ma non totalmente soppressivi della libertà, dentro la società e non fuori....
Il "miracolo" che si chiede alla collettività e ai suoi rappresentanti, in fondo, è di lieve entità: cominciare a "liberarsi" dal carcere, da quell'ingombro interiore somministrato come medicina che cura "il male", da quel ormai consolidato fallimento del diritto di cui fra decine di anni rivedremo, con orrore, il vecchio film... e  provare una nuova idea, un nuovo progetto, un nuovo percorso.
Il momento di farlo è arrivato...

"Fra mezzo secolo si parlerà del carcere come noi oggi parliamo dei patiboli di una volta, delle catene e dei condannati squartati" (Alain Brossat)


La Pena Visibile, di Salvatore Ferraro, Rubbettino Editore

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