I numeri sono
impressionanti: solo nel 2012 si sono consumati ben 7317 atti di
autolesionismo, 1.023 ferimenti, 1308 i suicidi tentati, 58 quelli riusciti. E
non solo fra i detenuti. Almeno cinque poliziotti penitenziari ogni anno
sfuggono dalla loro reclusione senza fine pena suicidandosi. Questo bollettino
di guerra pubblicato ieri dal Quotidiano della Calabria è l'ennesimo, puntuale,
conto presentato dal Carcere allo Stato Italiano. Un conto che ci si rifiuta
ancora di prendere nella dovuta considerazione ma che anche eludendolo, o forse
proprio per questa ragione, finisce lo stesso per riverberarsi ogni anno con la
stessa disumana casistica.
Ma perché succede tutto questo?
Chi ha varcato qualche volta la soglia di un carcere (magari
da volontario, da avvocato, da parlamentare, o semplicemente da detenuto) non ha potuto fare a meno di intravvedere nelle
braccia di tanti detenuti, sui loro stomaci, sotto il collo, quei solchi
cutanei profondi rinsecchiti dal tempo, vecchio o più recente ricordo di un
atto autolesionista.
Un'immagine cruda, pietosa, un'istantanea congelata di
regressione umana. Ebbene, quei tagli non sono semplici tagli ma rappresentano
altro: un vero e propri linguaggio. Il linguaggio della detenzione. L'unico, di
fatto, concesso a un detenuto per
comunicare in carcere le proprie ragioni, i propri bisogni.
"Sgarrarsi" un braccio, lacerarsi lo stomaco o il collo "con la
capocchia" di una scatola di tonno" rappresenta L'unico modo per
attirare e ricevere la dovuta attenzione dall'amministrazione penitenziaria.
Non è certo "colpa" dei poliziotti penitenziari i
quali, al contrario, in molte occasioni si sono adoperati per scongiurare tali
pratiche degradanti e in più di un'occasione hanno salvato la vita a detenuti
distogliendoli da propositi suicidi. Però è un fatto consolidato che l'attuale
modo di gestire la sanzione penale, col carcere, col freddo isolamento,
l'inerzia, la passività, il costante abbandono in ambienti degradati, promiscui
e sovraffollati, il "taglio" netto
del reo col resto della società non può che condurre a questa
inevitabile conseguenza: la sua regressione, la sua degradazione.
UNA PROPOSTA
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