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lunedì 28 agosto 2017

29 AGOSTO





Tanwir, il pakistano, aveva un animo puro e un cuore dolce.
Noi del reparto gli volevamo bene. Davvero.
Tanwir con gli occhi profondi, sofferenti, parlava sempre di sua moglie e di suo figlio lontani, della sua terra e di una postura yoga che la sua straordinaria magrezza gli consentiva di assumere.
Stava dentro per il cumulo di alcune "resistenze a pubblico ufficiale" divenute definitive e ingrassate a dismisura fino a una pena di quattro anni di reclusione. 
Resistenze...sì... durante alcune irruzioni notturne della polizia alla "Pantanella", un tempo glorioso pastificio romano poi degradato a rifugio di disperati clandestini.
Tanwir ci raccontava sempre di quella volta in cui "la luce  all'improvviso era sparita", della sua testa sfasciata, della copiosa colata di sangue.
Erano poi passati degli anni, Tanwir aveva trovato un lavoro regolare, busta paga, contributi in ordine ma poi... il processo (la sentenza definitiva) in contumacia. E adesso era qui con noi.
Tanwir era un credulone. Chiedeva sempre agli altri compagni come mai, (all'apertura delle celle per l'ora d'aria), d'avanti la mia cella si formassero file di detenuti con dei fogli in mano.
I compagni, prendendolo in giro, dicevano che ero il cappellano di reparto, l'unico in grado di poterlo aiutare a uscire di lì prima del 29 Agosto. Tanwir ci credeva.
Già, il 29 Agosto. Non una data qualsiasi. Un numero vitale per Tanwir, il giorno entro e non oltre il quale doveva assolutamente recuperare la libertà per poter sperare in un ricongiungimento familiare con la moglie e il figlio.
Quel 29 Agosto giocava il suo destino.
Era impossibile. Il tempo della prigione era bizzarro e irrispettoso delle esigenze dei più deboli.
Nonostante Tanwir avesse i requisiti legali per accedere a una misura alternativa, centrare la libertà entra quella data aveva bisogno di una carambola assurda, irregolare, spiazzante. E Tutto cospirava contro: l'estate, la lentezza dei Tribunali, la svogliatezza degli operatori a consegnare le relazioni, la casualità nella compilazione dei calendari d'udienza.  
Tanwir era spacciato.
Ma Tanwir ci credeva e veniva ogni giorno a trovarmi. Chiedeva, ascoltava, sperava.
In carcere si "giocava sempre di contenimento", si faceva scivolare il tempo, si alimentava qualche speranza lasciandola galleggiare o, addirittura, offrendola come certezza. Così si superavano le giornate e il dolore. Quasi sempre era una sconfitta. Ma una volta superato il giorno si aveva la sensazione di aver vinto sempre qualcosa.
Volevamo bene a Tanwir. Tutti. L'incredibile ingenuità con cui viveva la carcerazione, la straordinaria semplicità del suo linguaggio, la trasparenza con cui non mascherava la sua grande paura nello stare lì con noi aveva attratto su di sé un'attenzione e una benevolenza particolari. Soffocati nell'afoso bollore delle celle d'agosto, tutti noi attendevamo quel 29 Agosto facendo il tifo, sperando e disperandoci, provando a non fargli mancare nulla, incoraggiandolo.
Ogni mattina il suo sguardo profondo era come un sole nero che spuntava dall'oblò della mia cella. Io "come cappellano di reparto" potevo fare qualcosa per lui, intercedere, affrettare la decisione del giudice. Tanwir lo pensava davvero. Io facevo qualcosa per lui, anzi molto: gli parlavo. Gli davo tutte le parole che potevo. Tutte quelle che avevo. Tanwir recuperava il sorriso e sorridere, alla fine, significava sperare ancora.
Così, con altri tre compagni detenuti decidemmo di andare a parlare della situazione di Tanwir con Don Sandro, il cappellano vero. Leggenda voleva che Don Sandro in passato avesse fatto qualche "miracolo" del genere. Ma erano, appunto, leggende. Per di più carcerarie.
Don Sandro ci ascoltò, annuì, disse qualcosa con garbo: giocò, appunto, di contenimento. Anche quel breve dialogo era un piccolo tassello dell'ordinario mosaico di spendita del tempo della prigione. Don Sandro ci congedò con un sorriso.

Il silenzio. Era il silenzio in carcere a preannunciare gli avvenimenti più significativi, più tragici. Quel mattino, quasi l'alba, era Silenzio, puro e lungo silenzio. Poi il grattare di una scopa. Il pantalone color marrone di un detenuto "lavorante". La scopa che batté due volte sul portello della mia cella: notizia in arrivo. Mi alzai dal letto e mi spalmai sulla grata. Il lavorante mi guardò.
"Hai saputo?...Tanwir ce l'ha fatta...esce oggi!".
All'improvviso, il chiarore, la gioia. Il reparto incassò la splendida novità traducendolo in un mugugno infinito poi un applauso scrosciante poi ancora il canto sguaiato di urla isolate, singole improvvisazioni di giubilo. Tanwir usciva. Il 29 Agosto ce l'avrebbe fatta a unire la sua famiglia. Eravamo felici, felici davvero. Non era la solita felicità da carcerato, piena di rancore e senso di rivalsa. Era qualcosa di caldo e familiare. Come la nascita di un bambino. Come la condivisione di cibo buono. Alcuni detenuti "lavoranti" raggiunsero la cella di Tanwir. Lo aiutarono a prepararsi. Altri, tirarono fuori le sigarette, tutte quelle che c'avevano.
Tanwir tremava, come una foglia. Tremava e piangeva, stordito. Le sue gambe rischiavano di cedere.
E iniziò il rito di liberazione: Tanwir in fondo al reparto, con addosso la sua camicia più nuova, da festa pakistana. Il suo passo incerto, le lacrime di gioia e stordimento. I suoi ricci offuscati da abbracci e pacche. La "zampogna" riempita di regali e ricordi carcerari. Abbracciò tutti. Tutti l'abbracciarono.
Raggiunse la mia cella. Mi prese tutte e due le mani. Le strinse forte. Il suo volto era una pioggia battente di lacrime: gioia e incredulità. Nei mesi precedenti, gli avevo donato tutte le parole che potevo. Tutte quelle che avevo. Tanwir ora ricambiava. Con qualcosa di più grande
La sua libertà, per una volta, era anche la mia.

(di S. Ferraro, da "Galera, le ultime incisioni")












lunedì 6 maggio 2013

INSERTI


In carcere arrivava un solo giornale.  Ce lo davano gratis  ogni settimana: si trattava di Famiglia Cristiana. Lo trovavi puntualmente sopra la branda, al rientro del "passeggio" mattutino, avvolto nel cellophan sporco.
Gli altri giornali dovevi ordinarli in anticipo.
Se volevi la copia del mercoledì, per esempio, la dovevi ordinare quattro giorni prima e t'arrivava  verso le 11,00 pieno zeppo di notizie ormai  invecchiate.  
Il costo del giornale,  rispetto al prezzo di fuori, era quasi raddoppiato.  L'importo ti veniva  detratto dal conto che i familiari (chi ce li aveva) provvedevano periodicamente ad alimentare con un po' di denari (chi ce li aveva).
In carcere si leggevano molti quotidiani. Ma il top era  il "corriere dello sport".
 Quasi tutti i detenuti ordinavano una copia del corriere dello sport, lo si faceva a rotazione:  i soldi erano davvero pochi.

Io allora ordinavo un altro giornale: La Repubblica.
Anche all'epoca era un giornale di merda ma,  forse, un po' meno di oggi.
Dei giornali mi piacevano, soprattutto, gli inserti. Gli inserti dei quotidiani, dentro il carcere, erano dei piccoli guerriglieri rivoluzionari. Con i polpastrelli recidevi il cellophan e loro scivolavano  per terra lasciando una scia di colore vivo nel pavimento smorto e grigiastro della cella.
Erano pagine diverse, colorate, con molte foto. La cella subiva uno shock. Troppo colore all'improvviso.
Raccoglievo quegli inserti, gli davo un'occhiata: era un modo come un altro di passare il tempo.
Tutto qui.
Poi il venerdì era il "gran giorno" perché in cella "atterrava" l'inserto grosso: il Venerdì di Repubblica.  Ed era festa. Tanta carta, tante foto, tante notizie e almeno un articolo meritevole di essere letto.
Ma soprattutto, il "Venerdì di Repubblica" aveva LEI: la striscia.
Tecnicamente, una strip profumata che trovavi quasi sempre a metà lettura. Scollavi il lembo adesivo, agitavi un poco, e il gioco era fatto. La cella si riempiva di quell'essenza e, per un attimo, l'odore stantio, senza vita, della cella veniva sopraffatto . La "botta" era forte. Quasi sensuale.
Sollevavi il naso e aspiravi in profondità quella chimica che confondevi per ossigeno puro, benevolo. Il profumo era una novità piacevole, che  cambiava l'umore della giornata.
Se ne era accorto Nicola che, quella strip imbevuta di profumo,  me la chiedeva sempre  in dono.  Io gliela allungavo dal blindato mentre lui incollava  il suo naso a quel lembo di carta adesiva succhiandone la fragranza quasi fosse cibo salvifico.
Il carcere ha un odore terribile. Sa di morte.  Quel profumo combatteva la morte e combatteva il carcere.


Così ogni venerdì la scena si ripeteva. Sentivo i suoi passi, alla solita ora. Nicola chiedeva l'autorizzazione ad accostarsi alla mia cella, riceveva da me  la strip profumata. Le dava una prima poderosa aspirata e se la portava in cella per godersene la linfa per ore e ore, fino a seccarla.
Pare che Nicola procedesse all'operazione di "sniffo" standosene sdraiato sulla branda, con la testa ficcata sotto il cuscino.  
 Ogni venerdì.

Non ho più rivisto Nicola. Intendo dire, fuori. Dovessi incontrarlo gli chiederei solo di quelle strip. Gli domanderei se, in quei mesi, l'hanno aiutato a vivere meglio la sua condizione di recluso. Se, magari, quel profumo era il tentativo di far affiorare con più concretezza il ricordo di  una persona . O se era solo il semplice desiderio di un respiro diverso. Gli chiederei se quelle fragranze l'hanno, in qualche modo, aiutato ad andare avanti.  O se, al contrario, oggi prova repulsione per i profumi, tutti i profumi,  per lui ormai inevitabile e beffardo  richiamo  di quei terribili "Venerdì" di prigione.
(di S.Ferraro, da Galera, le ultime incisioni)

lunedì 18 marzo 2013

SI CHIAMAVA C3. ERA LA MIA CELLA.




Si chiamava C3. Era la mia cella.
Stava accanto l'entrata del reparto. Una posizione importante.
Ero il primo ad ascoltare  i passi che arrivavano dalla "rotonda". I passi  della posta,  del "gufo" (l'ufficiale giudiziario), quelli  degli agenti, degli educatori (mai ascoltati) ma soprattutto...i passi dei "nuovi arrivati": sempre uguali.
Avevo una grossa responsabilità: segnalare al reparto le loro condizioni, di cosa avessero bisogno, soprattutto per quanto riguarda il cibo.
"Ha le pezze al culo" era la frase di rito oppure bastavano due colpi sulla parete di Gianluca (il vicino di cella) e il reparto si metteva all'opera: pane,  pasta, pantaloni, una piccola colletta di sigarette (l'alimento più importante).
Il "lavorante" di reparto provvedeva al trasferimento di quei beni nella cella del nuovo arrivato.
Era la regola carceraria: I blocchi di partenza di una giornata in prigione devono essere uguali per tutti. "Poi so' cazzi tua".

Si chiamava C3. Era la mia cella.
A volte lo stare vicino l'ingresso non era un privilegio. I suoni del carcere ti arrivavano addosso con la loro brutalità ancora più amplificata: urla, blindati che sbattono, giri di chiavi ossessivi, lamenti e conati di vomito. Quello che mi impressionava era la disperata ricerca di zucchero. I tossici, in carcere, cercano sempre zucchero. Ne hanno bisogno, più della stessa droga. Il metadone gli sballa il quadro glicemico e li vedi come mosche impazzite aggirarsi per i reparti alla ricerca di una merendina. Come bambini viziati e disperati.

Si chiamava C3. Era la mia cella.
Era grande due metri per tre. Ma non te ne accorgi. Ti aiutano gli occhi. Che si abituano: sempre. Lo sguardo ti abbandona lentamente. Il quadro visivo si spegne. Le distanze s'accorciano. Ed essere ingabbiato dentro una scatola è una sensazione normale...

Si chiamava C3. Era la mia cella.
Poi sono stato scarcerato.
Mi hanno salvato i libri, la scrittura e le parole. Spesso quelle degli altri.
Mi ha salvato il mio fuori, che stava bene, in salute, che mi sosteneva e, soprattutto, aveva le possibilità di difendersi dalla quotidianità, dal bisogno, da un'intimazione di sfratto...
non è sempre così

(S.F.)

sabato 9 marzo 2013

STONATURE


La chitarra, alla fine, fu autorizzata ad entrare. Reparto G11, secondo piano.  
Il reparto aveva finalmente una chitarra. Un evento rivoluzionario dentro un carcere.Fu grazie all'intercessione di Padre Vincenzo, più influente delle nostre precedenti venti richieste tutte cestinate.

La chitarra fu scortata da un agente. Transitò lungo il corridoio accompagnata dagli sguardi annegati nel buio dietro i blindati e respiri trattenuti, manco si trattasse di una donna sensuale.
Era, al contrario, una chitarra ignobile. Deforme, di un colore sbiadito, le corde ad altezza diseguale e annerite dall'usura.  Dentro, per una sola ragione: accompagnare i canti della messa di reparto del sabato. Ecco perché era stata autorizzata a entrare.
Dopo la messa, infatti, Don Vincenzo doveva consegnarla a un ufficio della sorveglianza o riportarla alla sua canonica fino alla messa successiva.  
La diedero a me. Per accordarla.
Era più di un anno che, in quanto carcerato, non ne toccavo una.  La imbracciai, sentii il legno addosso, il  profumo tipico e, improvvisamente, un rivolo d'energia cominciò a circolarmi nel sangue. A fortificare il corpo. 
Avevo voglia di suonare. Ma non potevo. Il mio compito era solo quello: accordare lo strumento. La sistemai alla buona, credo un tono e mezzo sotto. Meglio non si poteva fare (almeno credo).
La chitarra. Per parecchi sabati successivi, la aspettavamo. E lei, puntualmente, arrivava, unica visita gradita del sabato. Poco prima della messa, coi compagni ci giocavamo gli spiccioli di minuti a disposizione consumandoli per cantare le canzoni che piacevano a noi. Facevamo in fretta, Battisti, Beatles, Battiato suonati a velocità quasi doppia per non perderci neanche un attimo di quella musica, lì dentro, così nuova e diversa.
Poi la messa di Padre Vincenzo, io alla chitarra e "Candeloro", "Maccheroni", "Er Capitano",  Gianluca,Gianni "Er malizia", Claudio e "tu sei la mia vita altro io non ho..." cantata in una amalgama sonora che per dissonanze e stecche avrebbe potuto ispirare parecchi compositori contemporanei.
Poi un giorno, la svolta. Padre Vincenzo, che era un giovanissimo prete pugliese, dopo la messa dirottò quella chitarra verso la mia cella. Me la porse. Così, d'impeto. "Io non ti ho dato nulla" mi bisbigliò. Capii al volo e ricevetti quel corpo di legno con le mani che tremavano e lo nascosi  sotto la branda (se ricordo bene).
Ero emozionato. Avevo una chitarra in cella. Per me significava solo una cosa: una  prigionia meno dolorosa. Avrei potuto suonare solo a notte fonda. Dopo l'ultimo passaggio della sorveglianza. Avvertii di tutto ciò Gianluca ed Enzo (i miei vicini di cella)  con la promessa, solenne, di suonare senza disturbare i loro sonni.
Suonare di notte è bellissimo. Dentro una prigione lo è ancora di più. Accovacciato coi piedi sopra il water e nascosto dietro un piccolo separé,  mi limitavo a sfiorare quelle corde malconce. Il suono di una chitarra di notte è straordinario. Fuori dalla grata, la luna a guardarmi, una specie di medusa bianca sospesa nel cielo, aria profumata che penetrava dentro, soffiata dalla campagna umida  e quella musica...ossia  un banale accordo di Re maggiore che diventa qualcosa di concreto che vedi circolare, caldo, che si propaga come un infuso benefico, come ossigeno... mentre il carcere dorme.
Durò solo un paio di settimane. Vennero a svegliarmi all'alba. Tre agenti. "Perquisizione" dissero.
Annuii. L'appuntato "buono" avanzò una proposta: "Se ce la consegni spontaneamente non faremo perquisizione (tradotto: daccela tu o  ti mettiamo a soqquadro tutta la cella). Mi voltai. Fu solo in quel momento che  mi accorsi che la chitarra occupava  in larghezza quasi  mezza cella. Mi venne da sorridere. Consegnai la chitarra agli agenti. Partì un procedimento. Io e Padre Vincenzo, gli imputati.
A me non fecero nulla. Il buon Padre Vincenzo (che, intanto, aveva confessato la sua "cessione illegale di strumento musicale") ebbe un formale richiamo dai suoi superiori e dall'ispettore di reparto. Fu condannata solo la chitarra. Che non tornò più. Che non potei più  abbracciare. Né suonare. 
Mi rimaneva solo lei.  La galera. E il suo orribile suono di chiavi, urla e metallo.
Amen. 
(di S.Ferraro, da Galera, le ultime incisioni )