La chitarra, alla fine, fu autorizzata ad entrare. Reparto G11, secondo piano.
Il reparto aveva finalmente una chitarra. Un evento
rivoluzionario dentro un carcere.Fu grazie all'intercessione di Padre Vincenzo, più influente
delle nostre precedenti venti richieste tutte cestinate.
La chitarra fu scortata da un agente. Transitò lungo il
corridoio accompagnata dagli sguardi annegati nel buio dietro i blindati e
respiri trattenuti, manco si trattasse di una donna sensuale.
Era, al contrario, una chitarra ignobile. Deforme, di un colore
sbiadito, le corde ad altezza diseguale e annerite dall'usura. Dentro, per una sola ragione: accompagnare i
canti della messa di reparto del sabato. Ecco perché era stata autorizzata a
entrare.
Dopo la messa, infatti, Don Vincenzo doveva consegnarla a un
ufficio della sorveglianza o riportarla alla sua canonica fino alla messa
successiva.
La diedero a me. Per accordarla.
Era più di un anno che, in quanto carcerato, non ne toccavo
una. La imbracciai, sentii il legno
addosso, il profumo tipico e, improvvisamente, un rivolo d'energia cominciò
a circolarmi nel sangue. A fortificare il corpo.
Avevo voglia di suonare. Ma
non potevo. Il mio compito era solo quello: accordare lo strumento. La sistemai alla buona, credo un tono e mezzo
sotto. Meglio non si poteva fare (almeno credo).
La chitarra. Per parecchi sabati successivi, la aspettavamo.
E lei, puntualmente, arrivava, unica visita gradita del sabato. Poco prima
della messa, coi compagni ci giocavamo gli spiccioli di minuti a disposizione
consumandoli per cantare le canzoni che piacevano a noi. Facevamo in fretta, Battisti, Beatles, Battiato
suonati a velocità quasi doppia per non perderci neanche un attimo di quella
musica, lì dentro, così nuova e diversa.
Poi la messa di Padre Vincenzo, io alla chitarra e
"Candeloro", "Maccheroni", "Er Capitano", Gianluca,Gianni "Er malizia", Claudio
e "tu sei la mia vita altro io non
ho..." cantata in una amalgama sonora che per dissonanze e stecche avrebbe
potuto ispirare parecchi compositori contemporanei.
Poi un giorno, la svolta. Padre Vincenzo, che era un giovanissimo
prete pugliese, dopo la messa dirottò quella chitarra verso la mia cella. Me la
porse. Così, d'impeto. "Io non ti ho dato nulla" mi bisbigliò. Capii
al volo e ricevetti quel corpo di legno con le mani che tremavano e lo nascosi sotto la branda (se ricordo bene).
Ero emozionato. Avevo una chitarra in cella. Per me significava
solo una cosa: una prigionia meno
dolorosa. Avrei potuto suonare solo a notte fonda. Dopo l'ultimo passaggio
della sorveglianza. Avvertii di tutto ciò Gianluca ed Enzo (i miei vicini di
cella) con la promessa, solenne, di
suonare senza disturbare i loro sonni.
Suonare di notte è bellissimo. Dentro una prigione lo è
ancora di più. Accovacciato coi piedi sopra il water e nascosto dietro un
piccolo separé, mi limitavo a sfiorare
quelle corde malconce. Il suono di una chitarra di notte è straordinario. Fuori
dalla grata, la luna a guardarmi, una specie di medusa bianca sospesa nel cielo,
aria profumata che penetrava dentro, soffiata dalla campagna umida e quella musica...ossia un banale accordo di Re maggiore che diventa
qualcosa di concreto che vedi circolare, caldo, che si propaga come un infuso
benefico, come ossigeno... mentre il carcere dorme.
Durò solo un paio di settimane. Vennero a svegliarmi
all'alba. Tre agenti. "Perquisizione" dissero.
Annuii. L'appuntato "buono" avanzò una proposta:
"Se ce la consegni spontaneamente non faremo perquisizione (tradotto:
daccela tu o ti mettiamo a soqquadro
tutta la cella). Mi voltai. Fu solo in quel momento che mi accorsi che la chitarra occupava in larghezza quasi mezza cella. Mi venne da sorridere. Consegnai
la chitarra agli agenti. Partì un procedimento. Io e Padre Vincenzo, gli
imputati.
A me non fecero nulla. Il buon Padre Vincenzo (che, intanto,
aveva confessato la sua "cessione illegale di strumento musicale") ebbe un formale richiamo dai suoi
superiori e dall'ispettore di reparto. Fu condannata solo la chitarra. Che non
tornò più. Che non potei più abbracciare. Né suonare.
Mi rimaneva solo lei.
La galera. E il suo orribile suono di
chiavi, urla e metallo.
Amen.
(di S.Ferraro, da Galera, le ultime incisioni )
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