Martedi 10 Giugno alle ore 18,00 presso L'URBAN CENTER (Galleria Vittorio Emanuele II - 11/12) di Milano, l'ASSOCIAZIONE ENZO TORTORA (Radicali Milano) presenta il libro:
LA PENA VISIBILE (o della fine del carcere) di Salvatore Ferraro
Ne parleranno con l'autore
Avv. Raffaele Della Valle (Avvocato Penalista)
Prof. Luca Luparia (docente di diritto penitenziario Università degli studi di Milano)
Eugenio De Paolini (dottore in Scienze Politiche)
modera: Alessandro Litta Modignani (giornalista)
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domenica 8 giugno 2014
mercoledì 12 marzo 2014
LA PENA VISIBILE A CAMPI BISENZIO
LA PENA VISIBILE: Lunedì 17 Marzo alle ore
21,00 a Campi Bisenzio (FI), presso la salala consiliare "Sandro Pertini" si terrà un
incontro sul tema della pena alternativa al carcere: LA PENA VISIBILE.
Intervengono:
Salvatore Ferraro,autore del libro "la Pena Visibile";
Franco Corleone, garante dei detenuti in Toscana;
Enzo Brogi, Consigliere regionale Toscana
Intervengono:
Salvatore Ferraro,autore del libro "la Pena Visibile";
Franco Corleone, garante dei detenuti in Toscana;
Enzo Brogi, Consigliere regionale Toscana
Il tutto nell'ambito di una serie di iniziative
organizzate dal Partito Democratico di Campi Bisenzio per informare e formare cittadini,
simpatizzanti e amministratori rispetto a tematiche di attualità politica e di
particolare importanza sociale e culturale.
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mercoledì 5 febbraio 2014
ANNO 2014: LA PENA VISIBILE
La pena visibile è un progetto organico e articolato che mira a modellare un nuovo scenario esecutivo della pena: una sanzione finalmente allontanata dall’opacità delle mura carcerarie e trasportata fuori, nella società. La realizzazione di un’interazione in cui vengono coinvolti i vecchi protagonisti della pena ma stavolta con funzioni più “aperte”, visibili, attive e con la presenza di un nuovo soggetto: la società, i suoi spazi, le sue relazioni.
Una pena che si esprime “dentro” un consorzio sociale in grado di produrre meccanismi afflittivi più aggiornati, garantendo, al contempo, un sistema di controllo adeguato. Un modello di sanzione “visibile” che, grazie alla co-partecipazione sociale, responsabilizzi il reo e gli fornisca stimoli positivi che possano finalmente distoglierlo da propositi devianti e indirizzarlo consapevolmente verso la pratica costante e continuata di regole sociali condivise.
La Pena Visibile (o della fine del carcere), di Salvatore Ferraro, Rubbettino Editore
martedì 22 ottobre 2013
MA IL VERO PROBLEMA DEL CARCERE RESTA SEMPRE... IL CARCERE
Quando si parla di carcere (chissà perché?) si pensa solo al problema del sovraffollamento.
In tal senso, ognuno ha già pronta la sua ricetta: c'è chi è convinto, per esempio, che per risolvere il problema basterebbe costruire nuove carceri, chi, invece, sostiene che sarebbe sufficiente rispedire i tanti detenuti stranieri ai rispettivi Paesi di provenienza. I più dotti e raffinati denunciano, inorriditi, il degrado delle carceri di oggi considerandone le condizioni di vita inaccettabili per un Paese che voglia dirsi civile e auspicano, con eleganza, il concepimento imminente (!!!) di galere "più a misura d'uomo".
C'è quello che si accorge che il codice penale che disciplina i nostri reati è addirittura del 1930 e che forse "parla" a un Paese che non c'è più. Chi guarda in faccia la realtà e sottolinea che sarebbe il caso depenalizzare i reati concernenti gli stupefacenti.
Posizioni, apparentemente diverse e discordanti, con un fortissimo e decisivo punto in comune: non riescono a rinunciare all'esistenza del carcere.
Il carcere è un prodotto culturale ormai superato, vetusto, "fuori dalla storia". Un prodotto che ci affanniamo a conservare, difendere, come una relazione sentimentale stanca, sfibrata ma che si ha paura di perdere.
Il carcere è dentro di noi. Siamo cresciuti con esso. Ci è stato insegnato che serve a proteggerci, a isolarci dal male...
Eppure, più di trecento anni fa, alcuni giovanotti dell'aristocrazia milanese (Tali Beccaria, Verri ecc.) compresero bene che ogni idea di punizione, ogni tecnica di punizione, ogni modello di sanzione è sottoposto a un'usura sociale e a un'evoluzione tecnico-giuridico. Forse fu per questo che essi propugnarono l'abolizione delle forche, degli squartamenti pubblici, dei patiboli e delle gogne. Idee nuove che sconvolsero l'opinione pubblica così assuefatta e rassicurata dalle pregresse, bestiali (per noi, oggi), forme punitive.
La magia fu una sola: lo fecero. Punto.
Il carcere, trecento anni fa, rappresentò l'avanguardia, la scelta illuminata. Un mezzo di contenzione che aboliva gli abomini delle torture e determinava l'essenza della punizione nella privazione completa della libertà. Quello che, allora, sembrava inimmaginabile fu immaginato e, di conseguenza, realizzato.
Un'idea, appunto.
Oggi il vero problema del carcere è il carcere dentro di noi, quello che ci impedisce di guardare "oltre" questa forma di sanzione che, ormai logora, dopo trecento anni di carriera, ha inevitabilmente manifestato tutti i suoi limiti, le sue contraddizioni, le sue perversioni. Un modello punitivo che sta "avvelenando" la Società con il suo gettito continuo di recidiva, di qualificazione criminale e regressione psico-fisica.
Sarebbe sufficiente fare poco: spostare il baricentro della sanzione dalla realtà tumulante della cella, dalla inerte e congelante contenzione della prigione, a modelli di sanzione "aperti", limitativi ma non totalmente soppressivi della libertà, dentro la società e non fuori....
Il "miracolo" che si chiede alla collettività e ai suoi rappresentanti, in fondo, è di lieve entità: cominciare a "liberarsi" dal carcere, da quell'ingombro interiore somministrato come medicina che cura "il male", da quel ormai consolidato fallimento del diritto di cui fra decine di anni rivedremo, con orrore, il vecchio film... e provare una nuova idea, un nuovo progetto, un nuovo percorso.
Il momento di farlo è arrivato...
"Fra mezzo secolo si parlerà del carcere come noi oggi parliamo dei patiboli di una volta, delle catene e dei condannati squartati" (Alain Brossat)
La Pena Visibile, di Salvatore Ferraro, Rubbettino Editore
e ora anche in formato eBOOK
http://www.ebook.it/E/Rubbettino_Editore/Salvatore_Ferraro/Scienze_umane/ePub/La_pena_visibile.html
Il carcere è dentro di noi. Siamo cresciuti con esso. Ci è stato insegnato che serve a proteggerci, a isolarci dal male...
Eppure, più di trecento anni fa, alcuni giovanotti dell'aristocrazia milanese (Tali Beccaria, Verri ecc.) compresero bene che ogni idea di punizione, ogni tecnica di punizione, ogni modello di sanzione è sottoposto a un'usura sociale e a un'evoluzione tecnico-giuridico. Forse fu per questo che essi propugnarono l'abolizione delle forche, degli squartamenti pubblici, dei patiboli e delle gogne. Idee nuove che sconvolsero l'opinione pubblica così assuefatta e rassicurata dalle pregresse, bestiali (per noi, oggi), forme punitive.
La magia fu una sola: lo fecero. Punto.
Il carcere, trecento anni fa, rappresentò l'avanguardia, la scelta illuminata. Un mezzo di contenzione che aboliva gli abomini delle torture e determinava l'essenza della punizione nella privazione completa della libertà. Quello che, allora, sembrava inimmaginabile fu immaginato e, di conseguenza, realizzato.
Un'idea, appunto.
Oggi il vero problema del carcere è il carcere dentro di noi, quello che ci impedisce di guardare "oltre" questa forma di sanzione che, ormai logora, dopo trecento anni di carriera, ha inevitabilmente manifestato tutti i suoi limiti, le sue contraddizioni, le sue perversioni. Un modello punitivo che sta "avvelenando" la Società con il suo gettito continuo di recidiva, di qualificazione criminale e regressione psico-fisica.
Sarebbe sufficiente fare poco: spostare il baricentro della sanzione dalla realtà tumulante della cella, dalla inerte e congelante contenzione della prigione, a modelli di sanzione "aperti", limitativi ma non totalmente soppressivi della libertà, dentro la società e non fuori....
Il "miracolo" che si chiede alla collettività e ai suoi rappresentanti, in fondo, è di lieve entità: cominciare a "liberarsi" dal carcere, da quell'ingombro interiore somministrato come medicina che cura "il male", da quel ormai consolidato fallimento del diritto di cui fra decine di anni rivedremo, con orrore, il vecchio film... e provare una nuova idea, un nuovo progetto, un nuovo percorso.
Il momento di farlo è arrivato...
"Fra mezzo secolo si parlerà del carcere come noi oggi parliamo dei patiboli di una volta, delle catene e dei condannati squartati" (Alain Brossat)
La Pena Visibile, di Salvatore Ferraro, Rubbettino Editore
e ora anche in formato eBOOK
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martedì 15 ottobre 2013
E PIU' DI UNO STATO SI AVVIA (A PICCOLI PASSI) VERSO "LA PENA VISIBILE"
Cominciai a parlare de "La Pena Visibile" illustrandone, ancora in forma embrionale, gli aspetti peculiari nell'autunno del 2006, in sei articoli pubblicati sul giornale telematico "Radicali Italiani".
Gli articoli erano piaciuti, erano circolati in qualche blog. Qualche cattedratico, addirittura, mi aveva confessato di aver seguito lo sviluppo di quel mio ragionamento (allora, ancora magmatico e frammentario) e "atteso con trepidazione" le sei diverse "puntate" in cui si avvicendavano le diverse analisi coi nuovi scenari della pena da me prospettati.
Risultato: La disamina del problema carcere era molto piaciuta ma la proposta finale, la radicale trasformazione che prospettavo per il vetusto modello punitivo carcerario, aveva destato qualche perplessità: "troppo pioneristico", all'"avanguardia", addirittura "utopistico", erano i commenti più frequenti anche tra i più ottimisti.
Da allora sono trascorsi più di sette anni e tante cose sono cambiate.
L'anno 2013, come più volte ricordato, ha segnato in tutta evidenza l'inizio di una graduale trasformazione della sanzione penale. Tale trasformazione, nel giro di 15 anni, porterà alla completa liquidazione delle prigioni (con qualche eccezione per i reati più pericolosi, l'attuale 4,5% della popolazione carceraria) e la scelta di modelli sanzionatori diversi, dentro la società.
C'è una premessa irrinunciabile, un punto di partenza da cui tutte le società devono muovere e far partire la propria riflessione: tumulare in carcere non ha più senso. Più di trecento anni di utilizzo delle celle, dell'isolamento, della promiscuità tra "criminali", hanno suggellato il fallimento di un metodo punitivo che vittimizza il reo anziché consapevolizzarlo, lo deresponsabilizza anziché incentivarlo, lo fa regredire psicologicamente anziché dotarlo di maggiori istanze positive. Un modello fondato sull'isolamento, il congelamento, l'inerzia, la passività e, soprattutto, la frequentazione di un unico consesso sociale: quello criminale. Un sistema, pertanto, che già in partenza, rinuncia al cambiamento in positivo del detenuto e pare voler avallare l'ineluttabilità di un suo rientro in carcere, una volta liberato, come "recidivo". Un modello che produce insicurezza e più criminalità sperperando, per ottenere questi infausti risultati, ben due miliardi e mezzo di euro all'anno (nella sola Italia).
Questo punto di partenza è stato ormai interiorizzato, acquisito, da più di uno Stato.
Spostare il baricentro della pena dal carcere alla società è ormai una necessità inderogabile.
La Pena Visibile è un percorso ormai chiaro, concreto, auspicabile e più di uno Stato si sta attrezzando per percorrerlo riproducendone i tratti salienti.
La Francia, per esempio, ha avviato un importante progetto di riforma che la vedrà, a partire dalla primavera del 2014, lavorare su un modello sanzionatorio che preveda l'abolizione del carcere per determinati reati e l'adozione, per il reo, di un percorso "aperto", all'interno della società, liquidando di fatto e per sempre l'utilizzo delle celle e della separazione del reo dal consesso civile positivo.
Ancora più forte e altrettanto spiazzante è stata la posizione adottata dagli Stati Uniti che, dopo il clamoroso fallimento della politica a "tolleranza Zero", per bocca del suo Procuratore Generale (una figura equiparabile al Ministro della Giustizia) Eric Holder ha sottolineato la necessità di una riforma che prenda in considerazione una premessa di fondo. "l'utilizzo del carcere per reati minori è altamente controproducente, non serve a garantire sicurezza al paese e, al contrario, favoriscono un circolo vizioso di povertà, criminalità e carcere che intrappola troppi americani e indebolisce troppe comunità. D'ora in poi le pene più severe verranno applicate ai grossi criminali mentre le persone che hanno commesso reati minori saranno sottoposte a trattamenti disintossicanti e a svolgere servizi per la comunità". Alle dichiarazione del Procuratore Holder si è subito affacciato lo Stato del Kentucky che, con una nuova legge, ha stabilito l'utilizzo del carcere solo per chi ha commesso reati gravi. Col grande risparmio economico che ne deriva, le altre risorse saranno investite in pene alternative.
Anche il Belgio, in tal senso, per quanto in una situazione di problematicità sottodimensionata rispetto ad altri Paesi, ha deciso di rinunciare al carcere "liberando", a partire dal settembre 2013, il 40% della popolazione carceraria destinandola agli arresti domiciliari, misura, in qualche modo, anche opinabile ma inequivocabile segnale dello sbrecciamento che il mondo delle prigioni sta attraversando.
Spostare il baricentro della pena dal carcere alla società è ormai una necessità inderogabile.
L'anno 2013 segna la data di inizio di questo percorso.
La Pena Visibile (o della fine del carcere), di Salvatore Ferraro, Rubbettino editore, 2013
giovedì 9 maggio 2013
LE PRIGIONI PIENE DI PRESUNTI INNOCENTI
Da La lettura inserto del Corriere della Sera del 5 maggio 2013
Tra le aste che i bambini fanno sul quaderno per imparare a formare le lettere dell'alfabeto e quelle che il futuro Conte di Montecristo traccia col gesso sulla parete della segreta per computare i giorni non c'è alcun legame, se non questo: che per capire il carcere servono a volte gli occhi di un bambino. «Questi, signori, sono le aste, sono i fondamenti, l'abc di uno Stato e di una qualunque civiltà (...). Se non sono a posto questi mattoni è davvero notte e sono davvero i mostri». Enzo Tortora non era un bambino, ma del bambino aveva serbato l'indocilità e la capacità di meravigliarsi. Quando pronunciò queste parole era il luglio del 1985, aveva già scontato sette mesi di carcere in attesa di giudizio e quasi altrettanti ai domiciliari. Il senso è chiaro: la civiltà delle carceri non dovrebbe essere neppure una questione politica, ma un'ovvietà prepolitica, nel senso in cui Benedetto Croce definiva il liberalismo un «prepartito». I fondamenti, l'abc, le aste. Oggi molti ne parlano come di una questione improrogabile, ma in un Paese che coltiva la retorica dell'emergenza, senza assumerne fino in fondo la moralità, non è detto che questo sia un bene. Nel suo discorso programmatico il premier Enrico Letta ha accennato alla «situazione carceraria intollerabile», il neoministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri l'ha già definita «una priorità che mi sta molto a cuore». Ma sono parole, e a lume d'esperienza c'è il rischio che lo restino.
E allora, parole per parole, meglio rivolgersi a due libri recenti dedicati alle storture del sistema penitenziario italiano. Il primo,Condannati preventivi (Rubbettino), lo ha scritto Annalisa Chirico, giornalista e militante radicale. Parla di quella che un tempo si chiamava carcerazione preventiva, oggi custodia cautelare in carcere. Dovrebbe essere una extrema ratio, una misura terribile a cui ricorrere solo quando non c'è alternativa, ma con l'andare degli anni e il succedersi delle emergenze è diventata una prassi, a cui i magistrati si attengono con un pericoloso connubio di intransigenza inquisitoria e pigrizia burocratica. Il risultato è che poco meno della metà della popolazione delle nostre carceri traboccanti è fatta di presunti innocenti, molti dei quali in attesa di un giudizio di primo grado.
Il libro chiarisce bene che le nostre prigioni fuori legge sono il punto di capitolazione di un sistema che è malato fin dalla testa - a partire dalla politica e dalle sue leggi «carcerogene» - e che è trascinato ancora più in basso da un'opinione- pubblica in preda a una persistente intossicazione forcaiola. Ma più ancora, si può dire, le carceri sono il nostro ritratto di Dorian Gray: l'immagine deforme in cui si specchiano l'inamovibilità, la sciatteria burocratica, la mentalità dilatoria di tutto un Paese, con la piccola differenza che a marcire non sono fascicoli in un armadio, ma uomini e donne in gabbia.
Il libro è pieno di osservazioni ragionevoli, ma in Italia la situazione è così buia che la letteratura sul carcere, anche se improntata al senso comune, suona più utopistica della Nuova Atlantide di Bacone. Ci vogliono, di nuovo, gli occhi di un bambino, o di un bambino di mezza età: «Un uomo, un cittadino, chiunque di voi ha diritto a un giudizio - se è accusato di qualche cosa - rapido, pronto, per mille e un motivo (...). Quindi direi che il metro di civiltà di un Paese si misura proprio dalla lunghezza o dalla brevità della carcerazione preventiva. È un male terribile. È un male contro il quale occorre battersi come occorre battersi contro gli altri mali del secolo. Questo è il male italiano del secolo».
Tortora lo spiegò agli alunni di una scuola milanese, che lo intesero a meraviglia. Perché la giustizia avrà pure i suoi tempi, ma le nostre vite sono troppo brevi per tollerare uno Stato che ci tiene in gabbia per anni senza averci condannato. Ci vuole tanta dottrina per capirlo? La prima parte di Condannati preventivi ripercorre casi noti e meno noti - Alfonso Papa, Lele Mora, Amanda e Raffaele, a ritroso fino alla vicenda atroce di Giuliano Naria, che negli anni di piombo scontò quasi dieci anni di carcere in attesa di giudizio, la più lunga custodia cautelare della storia repubblicana. Tra le storie giudiziarie raccolte c'è anche quella di Salvatore Ferraro, condannato nel 2003 per favoreggiamento nell'omicidio di Marta Russo. Ferraro, che si è sempre proclamato innocente, ha scontato un anno e quattro mesi di carcere preventivo, più otto mesi ai domiciliari. «Ho vissuto il carcere da spettatore meravigliato piuttosto che da persona che lo subiva», racconta. Da allora non ha fatto che occuparsi di carceri e carcerati, e il frutto del suo impegno è un libro, La pena visibile, anch'esso edito da Rubbettino. Di custodia cautelare non si fa cenno, perché secondo Ferraro, in un Paese civile, semplicemente, non dovrebbe esistere. Anzi, a dirla tutta, non dovrebbe esistere neppure il carcere, perché nei suoi trecento anni di vita ha dimostrato di non funzionare affatto. Non isola la delinquenza, la raggruppa. Non porta il detenuto a pagare il debito, ma anzi lo fa sentire creditore rispetto alla società. Chi entra in prigione si autoassolve, si deresponsabilizza e finisce (bene che vada) per assuefarsi a quell'«altro mondo».
Giusto o sbagliato, il carcere non risponde a nessuna delle ragioni per cui lo si tiene in vita. Ma l'opinione pubblica non ha modo di constatarlo, perché è un luogo opaco e segregato, e questa invisibilità protegge i suoi fallimenti. Per Ferraro il punto archimedico è qui: rendere visibile la pena, fare in modo che il condannato la sconti a contatto con una porzione di quella società in cui pure dovrebbe reinserirsi. Non sono i sogni compensatori di un giovane giurista che ha avuto guai con la giustizia, sono parte di un dibattito ormai pluridecennale sul superamento del carcere a cui ha contribuito di recente anche un ex magistrato, Gherardo Colombo, con Il perdono responsabile.
Utopie? Può darsi, almeno per gli anni (o i decenni) a venire. Ma per convincersi che la pena invisibile ottiene l'opposto di quel che cerca basta riaprire il diario di quell'uomo candido - anche e soprattutto nel senso voltairiano - messo in gabbia nel giugno del 1983, proprio trent'anni fa: «Quello che non si sa è che una volta gettati in galera non si è più cittadini ma pietre, pietre senza suono, senza voce, che a poco a poco si ricoprono di muschio. Una coltre che ti copre con atroce indifferenza. E il mondo gira, indifferente a questa infamia».
Di Guido Vitiello
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