Tanwir, il pakistano, aveva
un animo puro e un cuore dolce.
Noi del reparto gli volevamo
bene. Davvero.
Tanwir con gli occhi
profondi, sofferenti, parlava sempre di sua moglie e di suo figlio lontani,
della sua terra e di una postura yoga che la sua straordinaria magrezza gli
consentiva di assumere.
Stava dentro per il cumulo di
alcune "resistenze a pubblico ufficiale" divenute definitive e
ingrassate a dismisura fino a una pena di quattro anni di reclusione.
Resistenze...sì... durante alcune
irruzioni notturne della polizia alla "Pantanella", un tempo glorioso pastificio
romano poi degradato a rifugio di disperati clandestini.
Tanwir ci raccontava sempre
di quella volta in cui "la luce
all'improvviso era sparita", della sua testa sfasciata, della
copiosa colata di sangue.
Erano poi passati degli anni,
Tanwir aveva trovato un lavoro regolare, busta paga, contributi in ordine ma
poi... il processo (la sentenza definitiva) in contumacia. E adesso era qui con
noi.
Tanwir era un credulone.
Chiedeva sempre agli altri compagni come mai, (all'apertura delle celle per
l'ora d'aria), d'avanti la mia cella si formassero file di detenuti con dei
fogli in mano.
I compagni, prendendolo in
giro, dicevano che ero il cappellano di reparto, l'unico in grado di poterlo
aiutare a uscire di lì prima del 29 Agosto. Tanwir ci credeva.
Già, il 29 Agosto. Non una
data qualsiasi. Un numero vitale per Tanwir, il giorno entro e non oltre il
quale doveva assolutamente recuperare la libertà per poter sperare in un
ricongiungimento familiare con la moglie e il figlio.
Quel 29 Agosto giocava il suo
destino.
Era impossibile. Il tempo
della prigione era bizzarro e irrispettoso delle esigenze dei più deboli.
Nonostante Tanwir avesse i
requisiti legali per accedere a una misura alternativa, centrare la libertà
entra quella data aveva bisogno di una carambola assurda, irregolare,
spiazzante. E Tutto cospirava contro: l'estate, la lentezza dei Tribunali, la
svogliatezza degli operatori a consegnare le relazioni, la casualità nella
compilazione dei calendari d'udienza.
Tanwir era spacciato.
Ma Tanwir ci credeva e veniva
ogni giorno a trovarmi. Chiedeva, ascoltava, sperava.
In carcere si "giocava
sempre di contenimento", si faceva scivolare il tempo, si alimentava
qualche speranza lasciandola galleggiare o, addirittura, offrendola come
certezza. Così si superavano le giornate e il dolore. Quasi sempre era una
sconfitta. Ma una volta superato il giorno si aveva la sensazione di aver vinto
sempre qualcosa.
Volevamo bene a Tanwir.
Tutti. L'incredibile ingenuità con cui viveva la carcerazione, la straordinaria
semplicità del suo linguaggio, la trasparenza con cui non mascherava la sua
grande paura nello stare lì con noi aveva attratto su di sé un'attenzione e una
benevolenza particolari. Soffocati nell'afoso bollore delle celle d'agosto,
tutti noi attendevamo quel 29 Agosto facendo il tifo, sperando e disperandoci,
provando a non fargli mancare nulla, incoraggiandolo.
Ogni mattina il suo sguardo
profondo era come un sole nero che spuntava dall'oblò della mia cella. Io
"come cappellano di reparto" potevo fare qualcosa per lui,
intercedere, affrettare la decisione del giudice. Tanwir lo pensava davvero. Io
facevo qualcosa per lui, anzi molto: gli parlavo. Gli davo tutte le parole che
potevo. Tutte quelle che avevo. Tanwir recuperava il sorriso e sorridere, alla
fine, significava sperare ancora.
Così, con altri tre compagni
detenuti decidemmo di andare a parlare della situazione di Tanwir con Don
Sandro, il cappellano vero. Leggenda voleva che Don Sandro in passato avesse
fatto qualche "miracolo" del genere. Ma erano, appunto, leggende. Per
di più carcerarie.
Don Sandro ci ascoltò, annuì,
disse qualcosa con garbo: giocò, appunto, di contenimento. Anche quel breve
dialogo era un piccolo tassello dell'ordinario mosaico di spendita del tempo
della prigione. Don Sandro ci congedò con un sorriso.
Il silenzio. Era il silenzio
in carcere a preannunciare gli avvenimenti più significativi, più tragici. Quel
mattino, quasi l'alba, era Silenzio, puro e lungo silenzio. Poi il grattare di
una scopa. Il pantalone color marrone di un detenuto "lavorante". La
scopa che batté due volte sul portello della mia cella: notizia in arrivo. Mi
alzai dal letto e mi spalmai sulla grata. Il lavorante mi guardò.
"Hai saputo?...Tanwir ce
l'ha fatta...esce oggi!".
All'improvviso, il chiarore,
la gioia. Il reparto incassò la splendida novità traducendolo in un mugugno
infinito poi un applauso scrosciante poi ancora il canto sguaiato di urla
isolate, singole improvvisazioni di giubilo. Tanwir usciva. Il 29 Agosto ce
l'avrebbe fatta a unire la sua famiglia. Eravamo felici, felici davvero. Non
era la solita felicità da carcerato, piena di rancore e senso di rivalsa. Era
qualcosa di caldo e familiare. Come la nascita di un bambino. Come la
condivisione di cibo buono. Alcuni detenuti "lavoranti" raggiunsero
la cella di Tanwir. Lo aiutarono a prepararsi. Altri, tirarono fuori le
sigarette, tutte quelle che c'avevano.
Tanwir tremava, come una
foglia. Tremava e piangeva, stordito. Le sue gambe rischiavano di cedere.
E iniziò il rito di
liberazione: Tanwir in fondo al reparto, con addosso la sua camicia più nuova,
da festa pakistana. Il suo passo incerto, le lacrime di gioia e stordimento. I
suoi ricci offuscati da abbracci e pacche. La "zampogna" riempita di
regali e ricordi carcerari. Abbracciò tutti. Tutti l'abbracciarono.
Raggiunse la mia cella. Mi
prese tutte e due le mani. Le strinse forte. Il suo volto era una pioggia
battente di lacrime: gioia e incredulità. Nei mesi precedenti, gli avevo donato
tutte le parole che potevo. Tutte quelle che avevo. Tanwir ora ricambiava. Con
qualcosa di più grande
La sua libertà, per una
volta, era anche la mia.
(di S. Ferraro, da "Galera, le ultime incisioni")