venerdì 3 agosto 2018

ANCORA SULLA PENA VISIBILE



“Il sentiero da seguire, per il recupero e la risocializzazione del detenuto, è quello tracciato da Ferraro ne La Pena Visibile”

Giudice Ferdinando Imposimato
  


"La questione è culturale: gli Stati Generali, esperienza inedita per l’amministrazione penitenziaria italiana, hanno dato prova che è possibile ripensare l’esecuzione penale nel rispetto del dettato costituzionale, passando da
un carcere immaginato a un carcere visibile" (Ferraro, 2013)

da "Gli Stati Generali dell'esecuzione penale: una lettura educativa", 2017, Alessandra Cesaro  


lunedì 28 agosto 2017

29 AGOSTO





Tanwir, il pakistano, aveva un animo puro e un cuore dolce.
Noi del reparto gli volevamo bene. Davvero.
Tanwir con gli occhi profondi, sofferenti, parlava sempre di sua moglie e di suo figlio lontani, della sua terra e di una postura yoga che la sua straordinaria magrezza gli consentiva di assumere.
Stava dentro per il cumulo di alcune "resistenze a pubblico ufficiale" divenute definitive e ingrassate a dismisura fino a una pena di quattro anni di reclusione. 
Resistenze...sì... durante alcune irruzioni notturne della polizia alla "Pantanella", un tempo glorioso pastificio romano poi degradato a rifugio di disperati clandestini.
Tanwir ci raccontava sempre di quella volta in cui "la luce  all'improvviso era sparita", della sua testa sfasciata, della copiosa colata di sangue.
Erano poi passati degli anni, Tanwir aveva trovato un lavoro regolare, busta paga, contributi in ordine ma poi... il processo (la sentenza definitiva) in contumacia. E adesso era qui con noi.
Tanwir era un credulone. Chiedeva sempre agli altri compagni come mai, (all'apertura delle celle per l'ora d'aria), d'avanti la mia cella si formassero file di detenuti con dei fogli in mano.
I compagni, prendendolo in giro, dicevano che ero il cappellano di reparto, l'unico in grado di poterlo aiutare a uscire di lì prima del 29 Agosto. Tanwir ci credeva.
Già, il 29 Agosto. Non una data qualsiasi. Un numero vitale per Tanwir, il giorno entro e non oltre il quale doveva assolutamente recuperare la libertà per poter sperare in un ricongiungimento familiare con la moglie e il figlio.
Quel 29 Agosto giocava il suo destino.
Era impossibile. Il tempo della prigione era bizzarro e irrispettoso delle esigenze dei più deboli.
Nonostante Tanwir avesse i requisiti legali per accedere a una misura alternativa, centrare la libertà entra quella data aveva bisogno di una carambola assurda, irregolare, spiazzante. E Tutto cospirava contro: l'estate, la lentezza dei Tribunali, la svogliatezza degli operatori a consegnare le relazioni, la casualità nella compilazione dei calendari d'udienza.  
Tanwir era spacciato.
Ma Tanwir ci credeva e veniva ogni giorno a trovarmi. Chiedeva, ascoltava, sperava.
In carcere si "giocava sempre di contenimento", si faceva scivolare il tempo, si alimentava qualche speranza lasciandola galleggiare o, addirittura, offrendola come certezza. Così si superavano le giornate e il dolore. Quasi sempre era una sconfitta. Ma una volta superato il giorno si aveva la sensazione di aver vinto sempre qualcosa.
Volevamo bene a Tanwir. Tutti. L'incredibile ingenuità con cui viveva la carcerazione, la straordinaria semplicità del suo linguaggio, la trasparenza con cui non mascherava la sua grande paura nello stare lì con noi aveva attratto su di sé un'attenzione e una benevolenza particolari. Soffocati nell'afoso bollore delle celle d'agosto, tutti noi attendevamo quel 29 Agosto facendo il tifo, sperando e disperandoci, provando a non fargli mancare nulla, incoraggiandolo.
Ogni mattina il suo sguardo profondo era come un sole nero che spuntava dall'oblò della mia cella. Io "come cappellano di reparto" potevo fare qualcosa per lui, intercedere, affrettare la decisione del giudice. Tanwir lo pensava davvero. Io facevo qualcosa per lui, anzi molto: gli parlavo. Gli davo tutte le parole che potevo. Tutte quelle che avevo. Tanwir recuperava il sorriso e sorridere, alla fine, significava sperare ancora.
Così, con altri tre compagni detenuti decidemmo di andare a parlare della situazione di Tanwir con Don Sandro, il cappellano vero. Leggenda voleva che Don Sandro in passato avesse fatto qualche "miracolo" del genere. Ma erano, appunto, leggende. Per di più carcerarie.
Don Sandro ci ascoltò, annuì, disse qualcosa con garbo: giocò, appunto, di contenimento. Anche quel breve dialogo era un piccolo tassello dell'ordinario mosaico di spendita del tempo della prigione. Don Sandro ci congedò con un sorriso.

Il silenzio. Era il silenzio in carcere a preannunciare gli avvenimenti più significativi, più tragici. Quel mattino, quasi l'alba, era Silenzio, puro e lungo silenzio. Poi il grattare di una scopa. Il pantalone color marrone di un detenuto "lavorante". La scopa che batté due volte sul portello della mia cella: notizia in arrivo. Mi alzai dal letto e mi spalmai sulla grata. Il lavorante mi guardò.
"Hai saputo?...Tanwir ce l'ha fatta...esce oggi!".
All'improvviso, il chiarore, la gioia. Il reparto incassò la splendida novità traducendolo in un mugugno infinito poi un applauso scrosciante poi ancora il canto sguaiato di urla isolate, singole improvvisazioni di giubilo. Tanwir usciva. Il 29 Agosto ce l'avrebbe fatta a unire la sua famiglia. Eravamo felici, felici davvero. Non era la solita felicità da carcerato, piena di rancore e senso di rivalsa. Era qualcosa di caldo e familiare. Come la nascita di un bambino. Come la condivisione di cibo buono. Alcuni detenuti "lavoranti" raggiunsero la cella di Tanwir. Lo aiutarono a prepararsi. Altri, tirarono fuori le sigarette, tutte quelle che c'avevano.
Tanwir tremava, come una foglia. Tremava e piangeva, stordito. Le sue gambe rischiavano di cedere.
E iniziò il rito di liberazione: Tanwir in fondo al reparto, con addosso la sua camicia più nuova, da festa pakistana. Il suo passo incerto, le lacrime di gioia e stordimento. I suoi ricci offuscati da abbracci e pacche. La "zampogna" riempita di regali e ricordi carcerari. Abbracciò tutti. Tutti l'abbracciarono.
Raggiunse la mia cella. Mi prese tutte e due le mani. Le strinse forte. Il suo volto era una pioggia battente di lacrime: gioia e incredulità. Nei mesi precedenti, gli avevo donato tutte le parole che potevo. Tutte quelle che avevo. Tanwir ora ricambiava. Con qualcosa di più grande
La sua libertà, per una volta, era anche la mia.

(di S. Ferraro, da "Galera, le ultime incisioni")












venerdì 13 gennaio 2017

TULLIO

Oggi siamo andati a trovare Tullio, un ex-detenuto che in passato ha avuto dei ricoveri per problematiche psichiatriche. Siamo stati molto contenti di trovarlo, in fondo, in salute. Siamo stati contenti di trovarlo sorridente. Lui ci ha confermato che stava bene. Unico rammarico, ha detto, aver dovuto troncare di botto la relazione sentimentale che portava avanti da anni con Claudia Schiffer

lunedì 26 dicembre 2016

CAPODANNO IN CARCERE



Capodanno.
Sdraiato sulla branda. Gli occhi fissi sul televisore spento.



(da "Galera, le ultime incisioni", di S. Ferraro)

giovedì 19 maggio 2016

INNOCENTI



In carcere tutti si proclamavano innocenti.
Non era uno scherzo, non era un bluff.
Era un serio straripamento psicologico. Uno scherzo della mente determinato dalla segregazione e dalle inevitabili vessazioni che la persona tumulata in cella finiva per subire. Tutto sembrava ingiusto, sproporzionato. L'autore del reato resettava la sua responsabilità, la sostituiva con gli abusi e le illegalità che la galera quotidianamente gli somministrava.
In carcere si ricreava la propria innocenza anche, anzi soprattutto, da colpevoli.

Olivier, il ghanese, invece, era  innocente davvero. Così, almeno, ripeteva a più riprese. Lo faceva già la mattina presto, all'apertura delle celle per il passeggio mattutino, con i suoi semprepresenti cinque fogli giudiziari sulla mano destra: Olivier fermava tutti i compagni di detenzione, gli agenti, gli infermieri, i volontari, fermava tutti. Implorava attenzione.
Dava fastidio.
L'innocenza è sempre fastidiosa. Soprattutto in un carcere.
Olivier Veniva spesso anche da me, puntualmente durante il passeggio di mattina e non avevo tanta voglia di ascoltarlo.
Fino a quel giorno avevo aiutato chi avevo potuto. Scrivere in giuridichese, preparare un ricorso, una richiesta di affidamento in prova, un permesso. Lo facevo sempre volentieri: tutta roba per chi poteva aspettare mesi, anni.
Olivier, no. Aveva fretta. Era innocente da subito. I suoi occhi strabuzzati reclamavano il sacrosanto diritto di uscire. E prima possibile.
L'ingranaggio giustizia, però, non funzionava così.
Il  sistema giustizia era un meccanismo spietato, onnivoro, il cui fine era quello di portare dei risultati "a bilancio" e nient'altro. Non potevi avere fretta. Non potevi avere ragione. Erano gli altri a dover decidere per te.
Nel suo italiano malconcio, Olivier riusciva a dirmi sempre e solo due cose: "Sono innocente".  Troppo poco. I cinque, striminziti, foglietti che teneva sempre in mano altro non erano che l'ordine di carcerazione e una breve istanza fatta dal suo legale. Troppo poco anche questo.
Però insisteva, giorno dopo giorno, alla stessa ora, con la stessa modalità: sempre quella sbagliata.
Quella mattina, però, fu diverso. Lo vidi correre verso di me con una luce ficcante negli occhi. Anche il foglio che teneva in mano era diverso: non il solito fogliaccio bianco-sporco partorito da scialbi studi legali o oscene cancellerie di tribunale ma un piccolo rettangolo verde-smeraldo sbiadito, qualcosa di più vivo che veniva dal mondo di fuori: un telegramma.
Me lo mise in mano. Mi chiese di leggerglielo. Lo feci.
"Caro Olivier, faremo di tutto per dimostrare la tua innocenza. Intanto, però, mantieni la calma. Sappi soprattutto questo: qualsiasi cosa accada, noi ti staremo vicino. Non preoccuparti per il tuo posto di lavoro, GIURO che te lo conserverò fino al tuo rientro qui a Vicenza.
Era incredibile. A scrivere quelle cose non era sua moglie, la sua famiglia, gli amici.
Era il suo datore di lavoro.
Un piccolo imprenditore del Nord-est,  Vicenza per la precisione. Un imprenditore del Nord-est di quelli che il pregiudizio di allora ti faceva immaginare come insensibili, razzisti, legati al profitto e pronti a cambiare e sostituire il proprio operaio "negro" come una figurina qualsiasi.
Non preoccuparti per il tuo posto di lavoro, GIURO che te lo conserverò fino al tuo rientro qui a Vicenza
Quelle parole mi fecero tornare alla realtà. Mi svegliarono. Furono come un'esplosione.  Il tunnel della rassegnazione si frantumò (sbriciolò). La mia assuefazione al carcere, alle procedure, a una visione sconfitta e preconfezionata del sistema giudiziario si disintegrò.
Il tutto maturò e si consumò nei successivi tre giorni. La breve istanza fatta dal suo legale conteneva un'unica richiesta: analizzare le impronte digitali di Olivier e compararle con quelle del "fermato" e poi definitivamente condannato  che, al momento del primo arresto, aveva utilizzato un documento falso recante lo stesso nome e cognome di Olivier.
Era così chiaro. Doveva esserlo già dall'inizio. Lo si capiva solo adesso. Due giorni dopo Olivier fu scarcerato. Se ne tornava a lavoro nella sua Vicenza, dal suo straordinario datore di lavoro. Volle salutarmi, farmi gli auguri.
Ogni tanto gli innocenti uscivano di galera.
Capitava.

(scritto da S. Ferraro, da "Galera, le ultime incisioni)




mercoledì 20 aprile 2016

LINGUAGGI

LINGUAGGI
(Autolesionismo)

E bisogna, allora, parlare così. Con se stessi. Su se stessi. Assassinandosi.
Autolesionismo. Un nuovo linguaggio. Un modo nuovo per poter parlare… Col ferro ricavato da certi rasoi si finisce per protestare le proprie ragioni spendendo il proprio stomaco o le proprie braccia. E il sole la mattina racconta di queste nuove parole, segni secchi e profondi su braccia e ventri tatuati, coniate a mano dal silenzio e dalla disperazione sempre muta. Senza risposta. Senza più vita(da Radiobugliolo, 2002, di S. Ferraro)

Makram si era cucito le labbra. Con ago e filo. La sua bocca ora sembrava una cerniera di carne tenuta stretta da un'erba sottile. La voce gli usciva flebile, solo un indistinguibile mugugno, ma ora si faceva finalmente ascoltare. 
Molti anni prima, Giorgio aveva fatto qualcosa di simile. Si era inchiodato i testicoli su uno sgabello. Stessa ragione: farsi ascoltare.
In genere, il linguaggio che si usava in carcere per farsi ascoltare era meno eclatante: ci si tagliuzzava un braccio, si lacerava lo stomaco, si accoltellava la gola. Quasi sempre si utilizzava un rasoio ricavato da una scatoletta di tonno.
A parlare era poi il sangue che colava a caldi fiotti preceduti tutti da un veloce, impetuoso, zampillo e le orecchie del penitenziario finalmente si aprivano. Anche se per poco. Ma si aprivano.
Era un linguaggio partorito dal silenzio. Puro silenzio.
Ed era anche un silenzio totale a precedere quel gesto. Quasi sempre di notte: una voce secca, sicura, diceva: "Guardia venga alla cella numero 10!".
Significava che un detenuto voleva essere ascoltato. Sangue, odore di sangue e non solo.
Non finiva lì. Quello era un linguaggio perenne. Ogni giorno quell'esercito di silenziosi) era ben visibile agli occhi di ognuno.
Braccia, gambe, colli e ventri attraversati da solchi profondi, tagli di lametta, come strade irregolari. Un tempo, attraversati da rivoli abbondanti di sangue. Ora più simili a torrenti secchi. Quei tagli erano le loro parole, le sole possibili lì dentro. Per essere ascoltato. In carcere succedeva sempre così.
Le parole, quelle vere, erano finite, asciugate, morte.
E non uscivano più, da tanto tempo, da nessuna parte.

di S. Ferraro da "Galera, le ultime incisioni"



lunedì 11 aprile 2016

PALLE

"Burracchio" mi raccontò che da giovane era stato un guerriero Ninja.
Mi disse anche che era stato agente penitenziario nelle carceri del Venezuela, che sua moglie era Miss Italia edizione 1989 e che lui si era laureato in Legge "direttamente con Giulio Andreotti".
"Sperduto", invece, era stato fidanzato con Monica Bellucci, suo cugino era stato nientemeno che il costruttore del ponte che attualmente unisce Messina con Reggio Calabria e Vasco Rossi era da tempo suo intimo amico.
La barca del "Capitano" era lunga venti metri, la casa del "Malizia" era di 500 metri quadrati, "Febi" aveva un tesoro messo da parte, il "barese" era ricco sfondato coi soldi fatti vendendo scarpe sotto la metropolitana di Bucarest.
La forza del carcere era proprio questa: annullava la tua vera identità. In carcere ti potevi inventare quello che non eri e diventarlo davvero per giorni, mesi, anni.
Per molti era un regalo inaspettato. Potersi ricostruire una biografia,  una nuova vecchia esistenza, rendere il proprio passato più interessante e movimentato. Renderlo, soprattutto, ricco.
....anche per questo molti, una volta usciti di galera, desideravano ritornarci il più presto possibile

(di S. Ferraro, da "Galera, le ultime incisioni")