LINGUAGGI
(Autolesionismo)
E bisogna, allora, parlare così. Con se
stessi. Su se stessi. Assassinandosi.
Autolesionismo. Un nuovo linguaggio. Un
modo nuovo per poter parlare… Col ferro ricavato da certi rasoi si finisce per
protestare le proprie ragioni spendendo il proprio stomaco o le proprie
braccia. E il sole la mattina racconta di queste nuove parole, segni secchi e
profondi su braccia e ventri tatuati, coniate a mano dal silenzio e dalla
disperazione sempre muta. Senza risposta. Senza più vita. (da Radiobugliolo, 2002, di S. Ferraro)
Makram si era cucito le labbra.
Con ago e filo. La sua bocca ora sembrava una cerniera di carne tenuta stretta
da un'erba sottile. La voce gli usciva flebile, solo un indistinguibile
mugugno, ma ora si faceva finalmente ascoltare.
Molti anni prima, Giorgio aveva
fatto qualcosa di simile. Si era inchiodato i testicoli su uno sgabello. Stessa
ragione: farsi ascoltare.
In genere, il linguaggio che si
usava in carcere per farsi ascoltare era meno eclatante: ci si tagliuzzava un
braccio, si lacerava lo stomaco, si accoltellava la gola. Quasi sempre si
utilizzava un rasoio ricavato da una scatoletta di tonno.
A parlare era poi il sangue che
colava a caldi fiotti preceduti tutti da un veloce, impetuoso, zampillo e le
orecchie del penitenziario finalmente si aprivano. Anche se per poco. Ma si
aprivano.
Era un linguaggio partorito dal
silenzio. Puro silenzio.
Ed era anche un silenzio totale a
precedere quel gesto. Quasi sempre di notte: una voce secca, sicura, diceva:
"Guardia venga alla cella numero 10!".
Significava che un detenuto
voleva essere ascoltato. Sangue, odore di sangue e non solo.
Non finiva lì. Quello era un
linguaggio perenne. Ogni giorno quell'esercito di silenziosi) era ben visibile
agli occhi di ognuno.
Braccia, gambe, colli e ventri
attraversati da solchi profondi, tagli di lametta, come strade irregolari. Un
tempo, attraversati da rivoli abbondanti di sangue. Ora più simili a torrenti
secchi. Quei tagli erano le loro parole, le sole possibili lì dentro. Per
essere ascoltato. In carcere succedeva
sempre così.
Le parole, quelle vere, erano
finite, asciugate, morte.
E non uscivano più, da tanto
tempo, da nessuna parte.
di S. Ferraro da "Galera, le ultime incisioni"