Un filosofo: Fra mezzo secolo si parlerà del
carcere come noi oggi parliamo dei
patiboli di una volta, delle
catene e dei condannati squartati (Brossat 2003, p. 28)
Una sanzione
espiata «fuori dalle mura», dentro la società,
parrebbe
cancellare o attenuare di molto il suo ingrediente principale:
la sostanza
afflittiva.
Una sanzione senza
pena «vera», senza patimento, si palesa
monca. La
sofferenza del reo serve a gratificare la vittima, a «purificare» la
collettività dal delitto. La pena inflitta ha il compito
primario di
ricordare al reo l’errore commesso; e, in fondo, l’inizio
di un percorso
rieducativo passa anche attraverso «il segnale
d’inizio» di una
porta che si chiude.
Può darsi.
Ma, intanto, che
significa sofferenza?
È un’idea
oggettiva? Ha una veste formale definitiva? Ce l’ha
mai avuta? Si è
manifestata nella società con caratteristiche univoche?
No.
L’idea di pena, di
sofferenza, è solo una convinzione
culturale
sedimentata. Accettare passivamente un’idea preconfezionata
di sofferenza non
ha, pertanto, nessuna giustificazione.
L’idea di
sofferenza è stata, infatti, oggetto, in tutta la storia,
di una costante
evoluzione. L’ultima, la privazione della libertà
attraverso la
prigionia, ha rappresentato, per circa tre secoli, il progetto
più evoluto e
idoneo di pena rispetto alle pregresse «idee di
sofferenza»
incarnate dal boia, dai ferri roventi, dallo squartamento
dei condannati,
dalla gogna: idee, modelli culturali, progressivamente
superati.
Un giudice: Per la collettività turbata dal
delitto… ieri questa risposta era la
morte, ieri l’altro i supplizi,
oggi la perdita di libertà, domani, forse, una riparazione
costruttiva,
nel segno della solidarietà (Fassone in Gozzini 1997, p. 41)
Anche la prigionia
in carcere può essere, dunque, un modello
punitivo oggetto
di un’ulteriore evoluzione. Può spostarsi da un’idea
pre-confezionata
di sterile afflizione, che ha ormai manifestato
tutti i suoi
limiti, a «qualcos’altro».
Parlare oggi di pena,
di sofferenza, significa anche accettare la
possibile
esistenza di una diversa e nuova idea di essa. Bisogna solo
vedere in che
termini e in che modi tale pena riesca a esprimere
funzioni, effetti
e risultati in grado di soddisfare le aspettative della
vittima del reato
e della società.
Si potrebbe, così,
dimostrare che la società potrebbe essere in
grado di avviare
meccanismi interattivi sufficienti a generare nel
destinatario della
sanzione qualcosa che egli percepirà come pena,
come sofferenza.
Si tratta solo di
poter concepire un’idea di pena, di patimento
in un senso,
diremo, più contemporaneo. Senza rinunciare
a quella che è la
sua caratteristica principale ovvero
rappresentare il
patimento temporaneo derivante da una condizione
indesiderata:
1. che crea
sofferenza;
2. che crea
limite;
3. che crea
differenza;
4. che crea
preferenza per un’altra, migliore, condizione.
Facendo attenzione
a che l’aspetto afflittivo non crei nel destinatario
della sanzione
«effetti collaterali» indesiderati, ossia quei
già enunciati
sbandamenti psicologici che faranno perdere qualsiasi
utilità e qualità alla nuova modalità sanzionatoria.
(da La Pena Visibile, di Salvatore Ferraro, Rubbettino Editore, pagg.
112-114)
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