venerdì 7 giugno 2013

UN'IDEA EVOLUTIVA DI "PENA" E SANZIONE

Un filosofo: Fra mezzo secolo si parlerà del carcere come noi oggi parliamo dei
patiboli di una volta, delle catene e dei condannati squartati (Brossat 2003, p. 28)

Una sanzione espiata «fuori dalle mura», dentro la società,
parrebbe cancellare o attenuare di molto il suo ingrediente principale:
la sostanza afflittiva.
Una sanzione senza pena «vera», senza patimento, si palesa
monca. La sofferenza del reo serve a gratificare la vittima, a «purificare» la collettività dal delitto. La pena inflitta ha il compito
primario di ricordare al reo l’errore commesso; e, in fondo, l’inizio
di un percorso rieducativo passa anche attraverso «il segnale
d’inizio» di una porta che si chiude.
Può darsi.
Ma, intanto, che significa sofferenza?
È un’idea oggettiva? Ha una veste formale definitiva? Ce l’ha
mai avuta? Si è manifestata nella società con caratteristiche univoche?
No.
L’idea di pena, di sofferenza, è solo una convinzione
culturale sedimentata. Accettare passivamente un’idea preconfezionata
di sofferenza non ha, pertanto, nessuna giustificazione.
L’idea di sofferenza è stata, infatti, oggetto, in tutta la storia,
di una costante evoluzione. L’ultima, la privazione della libertà
attraverso la prigionia, ha rappresentato, per circa tre secoli, il progetto
più evoluto e idoneo di pena rispetto alle pregresse «idee di
sofferenza» incarnate dal boia, dai ferri roventi, dallo squartamento
dei condannati, dalla gogna: idee, modelli culturali, progressivamente
superati.

Un giudice: Per la collettività turbata dal delitto… ieri questa risposta era la
morte, ieri l’altro i supplizi, oggi la perdita di libertà, domani, forse, una riparazione
costruttiva, nel segno della solidarietà (Fassone in Gozzini 1997, p. 41)

Anche la prigionia in carcere può essere, dunque, un modello
punitivo oggetto di un’ulteriore evoluzione. Può spostarsi da un’idea
pre-confezionata di sterile afflizione, che ha ormai manifestato
tutti i suoi limiti, a «qualcos’altro».
Parlare oggi di pena, di sofferenza, significa anche accettare la
possibile esistenza di una diversa e nuova idea di essa. Bisogna solo
vedere in che termini e in che modi tale pena riesca a esprimere
funzioni, effetti e risultati in grado di soddisfare le aspettative della
vittima del reato e della società.
Si potrebbe, così, dimostrare che la società potrebbe essere in
grado di avviare meccanismi interattivi sufficienti a generare nel
destinatario della sanzione qualcosa che egli percepirà come pena,
come sofferenza.
Si tratta solo di poter concepire un’idea di pena, di patimento
in un senso, diremo, più contemporaneo. Senza rinunciare
a quella che è la sua caratteristica principale ovvero
rappresentare il patimento temporaneo derivante da una condizione
indesiderata:
1. che crea sofferenza;
2. che crea limite;
3. che crea differenza;
4. che crea preferenza per un’altra, migliore, condizione.
Facendo attenzione a che l’aspetto afflittivo non crei nel destinatario
della sanzione «effetti collaterali» indesiderati, ossia quei
già enunciati sbandamenti psicologici che faranno perdere qualsiasi
utilità e qualità alla nuova modalità sanzionatoria.


(da La Pena Visibile, di Salvatore Ferraro, Rubbettino Editore, pagg. 112-114)


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