In carcere tutti si proclamavano
innocenti.
Non era uno scherzo, non era un
bluff.
Era un serio straripamento
psicologico. Uno scherzo della mente determinato dalla segregazione e dalle
inevitabili vessazioni che la persona tumulata in cella finiva per subire.
Tutto sembrava ingiusto, sproporzionato. L'autore del reato resettava la sua
responsabilità, la sostituiva con gli abusi e le illegalità che la galera
quotidianamente gli somministrava.
In carcere si ricreava la propria
innocenza anche, anzi soprattutto, da colpevoli.
Olivier, il ghanese, invece,
era innocente davvero. Così, almeno,
ripeteva a più riprese. Lo faceva già la mattina presto, all'apertura delle
celle per il passeggio mattutino, con i suoi semprepresenti cinque fogli giudiziari sulla mano destra: Olivier
fermava tutti i compagni di detenzione, gli agenti, gli infermieri, i volontari,
fermava tutti. Implorava attenzione.
Dava fastidio.
L'innocenza è sempre fastidiosa.
Soprattutto in un carcere.
Olivier Veniva spesso anche da
me, puntualmente durante il passeggio di mattina e non avevo tanta voglia di
ascoltarlo.
Fino a quel giorno avevo aiutato
chi avevo potuto. Scrivere in giuridichese, preparare un ricorso, una richiesta
di affidamento in prova, un permesso. Lo facevo sempre volentieri: tutta roba
per chi poteva aspettare mesi, anni.
Olivier, no. Aveva fretta. Era
innocente da subito. I suoi occhi strabuzzati reclamavano il sacrosanto diritto
di uscire. E prima possibile.
L'ingranaggio giustizia, però,
non funzionava così.
Il sistema giustizia era un meccanismo spietato, onnivoro, il cui
fine era quello di portare dei risultati "a bilancio" e nient'altro.
Non potevi avere fretta. Non potevi avere ragione. Erano gli altri a dover
decidere per te.
Nel suo
italiano malconcio, Olivier riusciva a dirmi sempre e solo due cose: "Sono
innocente". Troppo poco. I cinque,
striminziti, foglietti che teneva sempre in mano altro non erano che l'ordine
di carcerazione e una breve istanza fatta dal suo legale. Troppo poco anche
questo.
Però
insisteva, giorno dopo giorno, alla stessa ora, con la stessa modalità: sempre
quella sbagliata.
Quella
mattina, però, fu diverso. Lo vidi correre verso di me con una luce ficcante
negli occhi. Anche il foglio che teneva in mano era diverso: non il solito
fogliaccio bianco-sporco partorito da scialbi studi legali o oscene cancellerie
di tribunale ma un piccolo rettangolo verde-smeraldo sbiadito, qualcosa di più
vivo che veniva dal mondo di fuori: un telegramma.
Me lo
mise in mano. Mi chiese di leggerglielo. Lo feci.
"Caro Olivier, faremo di tutto per
dimostrare la tua innocenza. Intanto, però, mantieni la calma. Sappi
soprattutto questo: qualsiasi cosa accada, noi ti staremo vicino. Non
preoccuparti per il tuo posto di lavoro, GIURO che te lo conserverò fino al tuo
rientro qui a Vicenza.
Era
incredibile. A scrivere quelle cose non era sua moglie, la sua famiglia, gli
amici.
Era il
suo datore di lavoro.
Un
piccolo imprenditore del Nord-est,
Vicenza per la precisione. Un imprenditore del Nord-est di quelli che il
pregiudizio di allora ti faceva immaginare come insensibili, razzisti, legati
al profitto e pronti a cambiare e sostituire il proprio operaio
"negro" come una figurina qualsiasi.
Non preoccuparti per il tuo posto di lavoro,
GIURO che te lo conserverò fino al tuo rientro qui a Vicenza
Quelle
parole mi fecero tornare alla realtà. Mi svegliarono. Furono come un'esplosione. Il tunnel della rassegnazione si frantumò
(sbriciolò). La mia assuefazione al carcere, alle procedure, a una visione
sconfitta e preconfezionata del sistema giudiziario si disintegrò.
Il tutto
maturò e si consumò nei successivi tre giorni. La breve istanza fatta dal suo
legale conteneva un'unica richiesta: analizzare le impronte digitali di Olivier
e compararle con quelle del "fermato" e poi definitivamente
condannato che, al momento del primo
arresto, aveva utilizzato un documento falso recante lo stesso nome e cognome
di Olivier.
Era così
chiaro. Doveva esserlo già dall'inizio. Lo si capiva solo adesso. Due giorni
dopo Olivier fu scarcerato. Se ne tornava a lavoro nella sua Vicenza, dal suo
straordinario datore di lavoro. Volle salutarmi, farmi gli auguri.
Ogni
tanto gli innocenti uscivano di galera.
Capitava.
(scritto da S. Ferraro, da "Galera, le ultime incisioni)